Farindola, il futuro è il Pecorino

FARINDOLA. La scoperta del secolo tra i pascoli sul versante orientale del Gran Sasso ha le impronte delle mani operose e capaci delle donne. All’alba del terzo millennio il pecorino di Farindola era un formaggio per pochi gourmet disposti a tutto pur di assaporare unicità in via di estinzione. Il 2001 segna la svolta: al Salone del Gusto di Torino questa prelibatezza di nicchia viene esposta allo stand abruzzese e chiunque l’assaggia se ne innamora. Passaparola, arriva la stampa specializzata, la grande distribuzione. E al Lingotto piovono premi prestigiosi per questo formaggio e insieme richieste da mercati fino ad allora impensati da quegli allevatori e agricoltori che, ostinati, nell’area vestina continuavano da generazioni a produrre con i metodi della tradizione il loro pecorino dal gusto unico, mentre figli e nipoti prendevano strade diverse, abbandonando la vallata verde ai piedi del Massiccio.

Si apre così la pagina nuova per una zona in crisi economica e occupazionale profonda, tra fabbriche che chiudono, investimenti che sfumano, servizi che emigrano insieme ai giovani sfiduciati. Il primo ad accorgersi della necessità di tutelare il pecorino farindolese è Slow Food, che ne fa un presidio. L’idea di rispondere al mercato che ne fa richiesta è di Ugo Ciavattella, veterinario «numero 1 in Abruzzo» per investitura unanime degli allevatori non solo vestini, palato raffinato, appassionato di queste valli e di quello che qui l’agricoltura con grande fatica dà. Lui conosce il carattere fiero e individualista degli allevatori vestini. Così in quell’anno fatidico, insieme a un manipolo di altri sognatori e con impegno tutto volontaristico fonda il Consorzio del Pecorino di Farindola: «Quella consortile era secondo noi la formula più consona alla tendenza individualistica dei nostri produttori», racconta, «una cooperativa non avrebbe avuto fortuna».

Il Consorzio si fa carico di un inedito lancio del pecorino su ampia scala. L’impresa è sostenuta dal Parco del Gran Sasso e dal Comune, raggruppa altri nove comuni dell’area, è costituita da 18 aziende e fa subito passi da gigante sul mercato. Pietro Paolo Martinelli oggi ha 32 anni, una età in cui molti, più che mai da queste parti, sono precari o in cerca di un lavoro. Ne aveva dieci di meno quando ha afferrato al volo la proposta che si sviluppava dal Consorzio e, fresco di laurea in Scienze e tecnologie alimentari all’università di Teramo, si è buttato nella creazione della sua azienda, che oggi copre l’80% della produzione: 240 ettari di allevamenti di ovini da latte (ha 1500 pecore e prestissimo ne aggiungerà 800), bovini di razza marchigiana e suini. Questi ultimi essenziali per la produzione del pecorino di Farindola, che si ottiene dal latte ovino crudo cagliato con, appunto, caglio di suino, cosa che costituisce un carattere unico nel panorama mondiale dei formaggi.

«Arrivavano chiamate e chiamate al Consorzio», racconta Martinelli, «e i piccoli allevatori non ce la facevano a soddisfare la domanda. Noi ci abbiamo provato e ci siamo riusciti. In controtendenza rispetto ad altri prodotti di nicchia siamo ormai nella grande distribuzione in tutta Italia, con Fiorfiore Coop, Carfour, Finipe, Conad, tutto il gruppo Gabrielli». Così alla Martinelli e nelle altre aziende l’occupazione cresce, soprattutto femminile. Sì perchè la sapienza antica che il presidio Slow Food rispetta alla lettera vuole che la cagliata venga rotta in pezzi piccoli dalle mani esperte delle donne, che poi con una serie di movimenti rituali creano le forme di pecorino nelle fiscelle. «Da sempre, e risaliamo all’epoca romana con resoconti di Tacito e Plinio il Vecchio, il nostro pecorino viene chiamato anche “il formaggio delle donne”, perché solo loro lo possono e lo sanno fare», ricorda Martinelli. «le nostre si chiamano Liliana, Franca e Ida, ma ogni etichetta sulla forma porta il nome della donna che l’ha lavorata». Dal pecorino a nuove produzioni, anche bio, a collaborazioni con il Parco per la promozione del territorio, dei suoi prodotti tipici e del turismo sostenibile, fino alle collaborazioni con le universitàper studi migliorativi e di più ampio raggio di utilizzo delle materie prime: è anche così che da quell’ottimo formaggio nasce lavoro, occupazione che riporta i giovani da queste parti.

«Qui a Farindola nascono una decina di bambini l’anno», assicura il l’assessore Claudia Colangeli, «segno che qui vivono coppie giovani». Figlia di questa catena virtuosa è la Casera consortile. In una antica e fresca casa accanto al municipio ci sono i suoi locali intrisi del profumo del pecorino: qui infatti i produttori portano forme a stagionare, per venderle e farle conoscere al turista del Parco. Gestita dalla coop Ciefizom presieduta da Paola Riccitelli, la Casera è una vetrina dell’area protetta e dei suoi prodotti: «Ci siamo inventati questo lavoro 20 anni fa», racconta la presidente, «bisognava crederci, ci abbiamo creduto e siamo qua. La terra richiede un lavoro duro, E servono soldi, investimenti. Non è un periodo facile per nessuno. Ma certo qui è una alternativa al nulla».

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