I disegnatori

di MATTEO DE CHIARA Si dovrebbe ammettere che i sentimenti hanno qualcosa di oscuro, di rovinoso, un'inclinazione che spinge verso l'insensatezza, che sono solo il prodotto di uno squilibrio chimico,...

di MATTEO DE CHIARA

Si dovrebbe ammettere che i sentimenti hanno qualcosa di oscuro, di rovinoso, un'inclinazione che spinge verso l'insensatezza, che sono solo il prodotto di uno squilibrio chimico, di fattori impossibili da controllare. In qualche modo se ne dovrebbe restare immuni, resistere alla tentazione di praticarli avvicinandosi a qualcun altro per conoscerlo, frequentarlo, finendo per far parte della sua vita. Tutto questo, forse, non nasconde già un eccesso? L'amore e l'odio possono confondersi così rapidamente da diventare una specie di amalgama velenosa, di orizzonte notturno simile a quello che si affaccia attraverso il parabrezza della sua auto mentre lui guida come se avesse tutto il tempo che gli occorre. La città, che all'esterno sembra proiettarsi sul mare, non esercita su di lui nessuna attrazione. È fredda, aliena, una plastica composizione di elementi che gli sfuggono. C'è il quadro d'insieme (presenze umane, angoli, edifici) ma mancano le sfumature, quei dettagli che suggeriscono che qualcosa può trovarsi fuori posto, che alludono a un possibile dramma.

Non gli sono mai piaciute le vedute da cartolina. Al contrario è attratto dalle immagini un po' sgranate, sovraesposte, sporche. Foto di certi scenari metropolitani: New York d'inverno, ad esempio, con la neve che marcisce agli angoli delle strade mentre i passanti si confondo dentro lunghi cappotti ruvidi, più grandi di qualche taglia. In fondo è l'insieme della sua vita che assomiglia a una stagione invernale, se ne rende conto ora che sta attraversando Salerno, e le strade assumono un aspetto astratto per via delle luci artificiali che ne illuminano gli scorci vaghi, le insegne spente di Mac Donald's e quelle liquide dei bar aperti tutta la notte, proiettandosi malinconicamente sulle facciate sgranate dei palazzi.

Di lato scorrono piazze solitarie, incompiute; larghi spazi interrotti fatti di superfici neutrali, scale umide e colonne intaccate attraversate da luci al neon che rendono il vuoto solo più consistente. Lungo un muro pende un manifesto a metà con una frase: La città del futuro. Qui il futuro sembra essere solo una promessa mancata. Non è che una parola assente. Lui lo sa bene, forse è per questo che avverte di poter svanire da un momento all'altro mentre supera i punti più remoti della sua giovinezza: Largo Campo, il Lungomare, Piazza della Concordia. Si sente sempre meno proiettato nella città risalendo verso l'ingresso dell'autostrada, una salita vuota che conduce a una stazione di servizio. Parcheggia l'auto ed entra come se fosse l'ultima cosa che gli resta da fare. Ha guidato a lungo, e ora gli sembra di averlo fatto solo per trovarsi qui. "Stiamo per chiudere". La voce della ragazza al bancone. È giovane, trsistemente adagiata con le braccia scoperte sulla superficie di plastica che non rimanda nessun riflesso di lei. Avrà poco più di vent'anni.

Lui non ricorda più com'era il suo aspetto a quell'età, i suoi pensieri. Ma, ha poi qualche importanza? "Vorrei bere solo qualcosa … di forte. Aspetto che arrivi un autobus, uno di quelli a lunga percorrenza". Lei annuisce appena mentre raccoglie distrattamente una bottiglia che rimanda il suo riflesso deformato.

Sulla parete alle sue spalle sono affisse vecchie immagini della città in bianco nero, istantanee del primo novecento: Corso Vittorio Emanuele, con larghi spazi deserti, pallidamente confinato tra una schiera baluginante di palazzi; il lungomare dove gente vestita di nero cammina costeggiando appena la superficie dell'acqua. Figure di un'epoca scomparsa. Ombre impresse su una patina bianca di celluloide che rendono il passato solo più lontano. La ragazza gli versa da bere con la stessa aria indifferente di qualche attimo prima. Lui avrebbe voglia che lei gli dicesse: "Mi piace la tua aria stanca, un po' malata". Da quanto tempo è che non succede? È molto che la sua aria malata non affascina più nessuna. Una volta non era così, lui esercitava la sua attrazione con naturalezza, ma ora… Eppure il suo corpo non smette di chiedere, probabilmente non smetterà mai.

La ragazza ha ripreso il suo posto dietro il bancone, le lunghe braccia esili strette contro il bordo sgranato; dalle cavità affiorano un reticolo di vene verdi. Lui pensa a come sarebbe posare le sue labbra in quel punto, coprire quel verde con il peso umido della sua bocca. "Non c'è molto movimento a quest'ora". Lei fa cenno di no. Non c'è mai movimento, è inutile anche stare a pensarci.

"Una volta venivo qui spesso, con la mia donna. Lasciavamo la macchina fuori, all'autolavaggio, e aspettavamo che fosse pronta".

Quella parola, donna, fa riemergere una serie di immagini nella sua mente, si tratta di una specie di montaggio psichedelico, serrato: l'odore dei capelli di lei, la sua pelle chiara che al tatto quasi si sgranava, il modo che aveva di ridere mostrando i denti o in cui oscillava la testa ascoltando delle pessime canzoni. Così lui avvia un brano che ha registrato sul telefono, in modo che anche la ragazza lo ascolti.

"Bella, no? È Insensatez di Tom Jobin … una bossa nova".

"Cos'è una bossa nova?".

"Un genere musicale".

"A me piace altro".

"Anche a lei piaceva altro".

Le piaceva altro, senza dubbio. Beve, un po' per cancellare questo pensiero, un po' per propiziarsi l'effetto dell'alcol, quella sensazione di non avere il pieno controllo di sé e galleggiare senza essere obbligato a restare con i piedi piantati per terra. Non è forse quello che lei, la sua donna, gli ha sempre rimproverato, di non riuscire a restare troppo a lungo con i piedi per terra?

Si concede dei sorsi brevi, indisciplinati, quasi violenti, lasciandosi accompagnare dal suono nostalgico della musica che sembra alludere a qualcosa che si consuma lentamente. È una melodia ritmicamente protesa verso il nulla.

"Ti trovi bene qui, con questo lavoro?".

Non sa bene perché ha fatto quella domanda alla ragazza, forse perché la musica sta per finire o, probabilmente, perché immagina già la risposta.

"Qui non c'è niente per quelli della mia età. Quasi tutti sono partiti e quelli rimasti non ce la fanno".

"E tu, perché sei rimasta?"

"Metto da parte dei soldi per potermene andare".

La ragazza rivolge un'occhiata alle foto in bianco e nero sulla parete: gli abitanti di quella Salerno non esistono più. Galleggiano in uno spazio limitato, sovraesposto. Chissà perché si continuano a fare fotografie, ostinandosi a fermare il tempo quando nessuno ha voglia di ammettere davvero come stanno le cose.

"E dove andrai?".

Ascoltando la domanda lei si volta, le lunghe braccia magre oscillano appena, intermittenti. Ad un tratto tutto in lei sembra essere scavato e provvisorio.

"Londra, o magari più lontano … L'America, forse …".

La ragazza posa la sguardo in direzione del parcheggio. Sembra immaginare già altri mondi: case con prati di un verde intenso, artificiale, circondate da siepi e steccati bianchi. In ogni caso, l'America.

"Una volta, mentre aspettavamo che il lavaggio dell'auto finisse, le ho chiesto di sposarmi. Proprio qui".

La voce di lui ha un tono neutrale mentre lo dice, anche quando ripete la parola sposarsi. Non aggiunge altro, si limita a prendere solo un sorso più lungo dal bicchiere.

"E poi?".

La ragazza lo osserva con una strana, ipnotica, intensità come per spingerlo a continuare.

"Poi … È partita e ha sposato un altro … Tu un po' me la ricordi".

Per un momento lui ha l'impressione di riuscire a vederla, la sua donna, in piedi nel parcheggio, a piedi nudi. Ha indosso solo una camicia da notte lisa, le gambe scoperte attraversate da lunghi graffi rappresi. Muove le labbra cercando di dire qualcosa, ma è solo un tentativo inutile … Uno spreco di energia.

"Le donne sono come fantasmi, ti entrano dentro, nella testa …".

Annuisce, per sottolineare l'ambiguità della frase. La ragazza ha la sensazione che quei discorsi siano più pericolosi di quello che sembra.

"Non trovi che entrino nella testa degli uomini senza più uscirne?".

" Non lo so, io non sono una donna".

Lei si sforza di sorridere per provare ad alleggerire l'atmosfera. In fondo le piace sentire di non essere una donna. È così che vorrebbe restare anche in futuro, se solo si potesse rallentare la crescita, impedire alla cellule di progredire, invecchiare e ammalarsi. Si direbbe che anche lui l'abbia capito.

"Tutti avrebbero voglia di fermare il tempo, fare in modo che le cose durino, che le persone non se ne vadano …

"Penso che si potrebbe uccidere pur di tenersi qualcuno".

Lui annuisce facendosi ricadere i capelli sulla fronte e lasciandoli lì, in disordine, come per rafforzare quell'idea.

"In fondo non è così difficile provocare un danno fisico, fare del male. Il corpo umano è solo una quantità di pelle, vene e vasi sanguinanti. Si tratta solo di mantenere il controllo, di non lasciarsi prendere dall'ansia e colpire nel punto giusto".

L'ha detto, inutile fingere che non sia così. La ragazza si sforza di restare impassibile, mentre con un'occhiata cerca il punto in cui si trova il telefono. Per raggiungerlo le basterebbe allungare la mano, puntare un dito sullo schermo per far partire una chiamata. Chissà se lui gliene lascerebbe il tempo.

"E adesso dov'è … La tua donna?".

Sembra avere una sua voce naturale mentre lo chiede. Quello che deve fare è non tradire nessuna preoccupazione, nessuna incertezza.

"Da un'altra parte".

Lui le risponde mentre rivolge lo sguardo nel parcheggio, dove un attimo prima si trovava la figura bianca, quasi nuda e irrisoria.

"Un posto fatto per lei".

Si morde un labbro, solo per avere la sensazione di provare ancora qualcosa. Le parole, il loro significato, sembrano confondersi così in fretta. È come se ogni discorso, prima o poi, finisca sempre per avvitarsi su se stesso.

"Ancora un bicchiere".

"Dobbiamo chiudere".

"È l'ultimo, promesso".

Ora è lui a sorridere e il suo viso acquista una dimensione infantile, quasi familiare. Stavolta manda giù l'alcol tutto insieme, in un modo che fa male. Gli manca la sua anima, ma non è lì che la troverà, tra il bancone e quelle foto alle spalle della ragazza. La vita non è fatta per essere messa in esposizione, in una cornice.

"Le persone sono strane, promettono molto e alla fine non ti lasciano niente".

Indirizza il suo sorriso arrendevole solo verso di lei cercando di colpirla.

"A me non è rimasto niente".

È un attimo in cui non ha più niente di inquieto o minaccioso, trasmette solo l'aria di chi galleggia nei rimpianti. Anche la ragazza sembra rendersene conto perché adesso gli sta di fronte con tutta la sua magrezza fatta di troppe sigarette e rinunce alimentari. Con un gesto che non può evitare gli sta ravviando i capelli ludici; al tatto sono umidi e odorano di polvere, sembrano avere assorbito tutto il peso della strada, tutta l'ansia meccanica del movimento. Le piacciono, non saprebbe neanche spiegare il perché. Lui in quel momento non la spaventa più. Non può esserci niente di minaccioso in un uomo con i capelli sporchi e un sorriso da adolescente. Uno nato lì e che si è perduto, come si perdono tutti.

"L'ultima volta che l'ho vista portava un anello, uno di quelli che si regalano prima del matrimonio, con al centro dei brillanti. Per lei doveva significare molto … Una promessa. Una promessa che le ha fatto un altro".

Si lascia andare stancamente sullo sgabello, mentre indica qualcosa, fuori.

"Quello è il mio autobus …".

Rivolge il suo profilo lucido verso l'automezzo che arranca nel parcheggio.

"Dove stai andando?".

" Da qualche parte …"

"Da solo?".

Lui fa cenno di sì mentre la ragazza resta catturata dal riflesso della carrozzeria chiara, scintillante del pullman che sembra assorbire con naturalezza anche il bagliore opaco dei lampioni.

"Perché non usciamo insieme?devo solo chiudere la cassa e spegnere le luci".

All'improvviso non vuole che lui se ne vada, che la notte si concluda nello stesso modo in cui ha avuto inizio, che le cose finiscano sempre per assomigliarsi. Si limita a registrare il suo silenzio mentre chiude i conti prima di spostarsi sul retro per spegnere il generale delle luci. Si sfila la divisa muovendosi con gesti febbrili, come se tutto dipendesse da quella capacità che si è imposta di fare in fretta. Quando rientra la sala è illuminata solo dai riflessi del parcheggio che si confondono con i fari intermittenti dell'autobus che riparte. Le sembra di muoversi in un universo rigido, sconosciuto, fatto di visioni buie, di tentazioni senza soluzione.

Se n'è andato senza aspettarla, senza una parola. Dovrebbe esserci abituata, eppure ogni volta le fa effetto in un modo diverso. Un modo che contribuisce a farla sentire inutile. Raccoglie il suo bicchiere, dove lui ha lasciato l'impronta scabrosa della bocca, delle dita. All'interno qualcosa tintinna con un suono minuto, stridente. La raccoglie tenendola sospesa in alto, illuminata solo dalla luce notturna che scivola attraverso la vetrina. È un gocciolante anello di fidanzamento, che pende dalla sua mano. Un anello bianco, un freddo accessorio della vita sentimentale degli altri. È quello di cui lui le ha parlato, l'anello della donna che una volta è stata sua.

Nel parcheggio c'è ancora la sua auto. L' ha lasciato lì. Perché? Ha la sensazione di cominciare a capire.

Avanza verso la carrozzeria cupa, modellata dagli urti ricevuti, posando gli occhi in direzione del cofano. Ha in mente le frasi che ha ascoltato:

"Le donne sono come fantasmi, ti entrano dentro, ti condizionano …"

Stringe l'anello bagnato nel pugno.

"La mia donna? Si trova in un posto fatto per lei".

Le pietre sfregano con insistenza contro il palmo della sua mano come se la implorassero di non farlo.

"Le persone sono strane …"

Compie ancora un passo mentre immagina, sollevando il cofano, che scoprirà quella donna piegata su un fianco, l'estremità delle gambe nude messe in mostra, le dita dei piedi intrecciate in un morsa implorante. Non chiamerà nessuno, non subito almeno. Si limiterà a fissarla così com'è silenziosa, ripiegata su stessa, solo la pallida copia di quello che deve essere stata: qualcuno che ha fatto dell'amore il punto più oscuro della sua vita.

La esplorerà con lo sguardo prendendosi tutto il tempo che le occorre, solo per capire, davvero, quanto le assomiglia.

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