IL CALEIDOSCOPIO

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A volte, dopo aver a lungo errato, bisogna rimpatriare, rientrare nella propria anima come se fosse una terra a lungo abbandonata. Quella sera decise di tornare sulla collina. Uscì di corsa, prendendo con sé un grande foglio arrotolato e si diresse verso la meta con l'entusiasmo di un bambino. Gli ulivi erano ancora lì, dopo tanti anni, a far ondeggiare impercettibilmente le loro minuscole foglie lucide, in una danza segreta ed eterna. Iniziò l'ascesa, a piedi nudi, attraverso l'erba alta e i rovi. Voleva farsi male, ferirsi per riprendere coscienza della realtà.  Gli sembrava di essere tornato piccolo, quando lottava contro i graffi e contro la paura del buio. Suo fratello lo superava correndo, lasciandolo indietro a piagnucolare per la paura. Nella sua mente prendevano forma lupi e pipistrelli, o grossi serpenti striscianti. Eppure, anche allora gli ulivi danzavano placidi, frusciando piano, in un lento sussurro. Ora sembravano portare con loro le voci del passato, le sue paure, i suoi fantasmi. L'ombra di suo fratello, l'impronta invisibile che aveva lasciato su ogni cosa, lo continuavano a tormentare. Dalla sua morte, non aveva più osato fuggire per guardare le stelle sulla collina. Il cielo era troppo vivo e nell'incessante respiro della terra si celava una beffa: una carezza non richiesta, un abbraccio non voluto. Arrivò nel punto più alto e si sdraiò con gli occhi alzati. Le stelle erano nascoste da grandi nuvole fumanti, che solo di rado lasciavano intravedere qualche lucina intermittente. La luna, come coperta da un velo leggero, regalava una luce soffusa, opaca. Sbavata, come se qualcuno scrivendo vi avesse poggiato la mano per errore. Il campo era pieno di lucciole, e la calma perfetta delle prime sere d'estate era la culla ideale per i ricordi più tristi. Dopo qualche minuto di contemplazione aprì sull'erba il grosso cartellone. Era un disegno infantile, fatto da bambino e ritrovato per caso. Aveva cercato di aggiustarlo un po'. Si sforzò di esaminarlo con occhi esterni, per averne un giudizio oggettivo. Era un enorme edificio a pianta pentagonale fatto di vetri colorati, circondato a sua volta da un'enorme specchio a forma di cupola, aperto in alto per permettere il passaggio dei raggi solari. Colpendo i vetri la luce sarebbe stata riflessa sul grande specchio e avrebbe creato un ambiente iridescente. Un enorme caleidoscopio: ecco cosa doveva essere. Ogni corridoio, ogni stanza avrebbe dovuto trasportare lo spettatore in un mondo bello, fatto solo di colori. Non vi era nulla di matematico ed esatto in un sogno del genere. Era, dopotutto, frutto della mente di un bambino. Gli era stato anche chiesto cosa dovesse contenere, praticamente, questo poetico edificio dalla dubbia utilità. Qui si poneva un problema. Nessuno comprendeva il vero significato dell'utilità. Niente più del bello può considerarsi utile. Niente più del bacio rubato della bellezza, conforta l'animo umano. Chiunque fosse l'inventore del caleidoscopio, pensava, doveva essere stata una persona coraggiosa. Creare lo straordinario in un mondo in grado di apprezzare solo il tangibile. Ora che stava morendo anche lui, aveva bisogno di quel disegno, di quella utopia. Doveva ripensarsi come un bambino. Ritrovare la sua anima e riprendere per mano il fanciullo che vi era stato nascosto per ben venticinque anni. Comprendere quel tatuaggio, quel marchio di appartenenza che la morte gli aveva impresso fin dalla nascita. Constatò che nella vita non si cresce. Si rimane in fondo i bambini che si è stati. Si dimentica solo ciò di cui si ha bisogno.

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