Il pensiero che nobilita la civitas

Il saluto di Cappelletti, presidente di giuria del concorso di saggistica di Roseto

E’ sempre così. Un premio alla saggistica, come si chiama il Premio Città delle Rose, con una punta di civetteria, comunque un pubblico e solenne riconoscimento che si voglia dare da una città o da un sodalizio intellettuale al pensiero che esplora, chiarisce o definisce oggetti o temi che appartengono alla coscienza umana e ne dipendono, ha un ritorno sostanziale in termini di prestigio e di apprezzamento sociale. Se il premio viene da una città, e si dimostra attento agli autentici valori che la persona umana produce nella sua attività studiosa, la città si nobilita, il suo nome si diffonde e il consorzio degli uomini che in quella città vivono assurge a risonanza e riceve lode. 

 Per aver seguito dall’inizio il premio creato dal Comune di Roseto, posso e devo dare atto a Franco Di Bonaventura, sindaco della città, che l’iniziativa presa anni addietro è ormai un punto di riferimento del panorama culturale del nostro Paese. E così tra le opere a concorso ce n’è stata una di quelle, giustamente rare, che periodicamente entrano a far parte del corredo storico e critico sulla civiltà italiana, lumeggiandone aspetti e momenti che ne rappresentano la dotazione di pregio universalmente riconosciuto, ma non certo esaurito. Nella storia del Premio Città delle Rose, un testo critico, di storia dell’arte, che ripropone la lettura di un’opera famosa, la cappella Scrovegni decorata da Giotto, è venuto a introdurre un nuovo tassello, atteso e meritato.

 Medievalista di fama, Chiara Frugoni in «L’affare migliore di Enrico», edito da Einaudi in un poderoso volume degli Struzzi, ha scelto un tema che appartiene al novero delle cose più preziose, all’essenza dell’italianità: Giotto, San Francesco, Padova, Dante Alighieri. Con la sua discutibile pretesa di mandare l’uno e l’altro in Paradiso o all’Inferno ma senza l’arbitrio del Poeta, non esisterebbe il capolavoro della Divina Commedia. Dante si era anche occupato della famiglia patavina degli Scrovegni, e aveva messo tra i dannati al fuoco eterno Rainaldo Scrovegni, considerandolo usuraio.

 Rainaldo era padre di Enrico, uomo politico, inviato nel 1318 a trattare la pace con Cangrande della Scala. Ricco e affermato banchiere, Enrico Scrovegni incaricò Giotto di affrescare la cappella che aveva fatto edificare nell’arena di Padova. Tra il 1303 e il 1305, nacque uno dei capolavori del pittore medievale. Ma che cosa muove Scrovegni a investire in un’impresa arrischiata capitali e prestigio? Qui il ponderoso saggio della Frugoni gioca la carta decisiva, con un formidabile apparato documentario. «(...) l’ambizioso Scrovegni vedeva per il suo futuro più profili possibili: grande banchiere, influente uomo politico, uomo di potere e forse addirittura al potere (...) Attraverso gli splendidi affreschi Enrico Scrovegni volle istituire un colloquio continuo con la sua città e presentarsi ancora con un altro profilo, quello del mecenate».

 L’autore straniero prescelto quest’anno dalla giuria è Tzvetan Todorov, uno dei nomi più noti della letteratura europea, letteratura intesa come prodotto letterario, come filologia e sociologia, e sommando queste accezioni del termine con altre d’importanza non secondaria, come rappresentazione dell’umanità che riflette e discute sull’oggi e sul domani della propria esistenza. Todorov è bulgaro, nato a Sofia, ma dopo la laurea si è trasferito a Parigi dove si è dedicato alla filosofia del linguaggio nella cerchia di Roland Barthes. La nuova patria francese gli ha suggerito un’ampia riflessione su nazione e comunità di nazioni, su patria e umanità, sull’onda di una lingua, quella francese, che in fondo è l’unica assimilabile a un latino dei nostri anni. «Io e gli altri», un lavoro critico del 1990, rimane l’emblema di un letterato filosofo che aspira ad aprire vie d’uscita sull’intero mondo, dall’interno della lingua.

 Ora la grande e dominante preoccupazione di Todorov è diventato il testo, anzi il discorso letterario: rispecchiato, lo stato d’animo di cui dicevamo, da «La letteratura in pericolo», che è l’opera prescelta per il Premio Città delle Rose 2009. Un testo da leggere e rileggere, un documento di alta consapevolezza anche politica. La letteratura più della filosofia e naturalmente più della scienza rimane, deve rimanere la consapevolezza offerta a tutti e a tutti necessaria, soprattutto quando diventa poesia.

 Non c’è dubbio, una bella strada quella percorsa in pochi anni dal Premio Città delle Rose, voluto e coraggiosamente difeso dal sindaco di Roseto degli Abruzzi, che tuttavia in questa edizione si svolge in un’atmosfera particolare. Tutti portiamo nell’animo il dolore di una splendida città ferita, L’Aquila, che dovrà risorgere ancora più bella e suggestiva, più ricca e ispiratrice spiritualmente di quanto finora era stata, con i centri che la circondavano, e ne ricordiamo uno, Onna, che è nel cuore di tutti gli Italiani.

* presidente del Premio Città delle rose