INGANNO

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Il giorno in cui l’ho saputo, ho ammazzato una mosca. Ho affondato le unghie puntute nelle piccole viscere, le ho tagliuzzate, ne ho annusato l’odore.

Ho visto il crocefisso con la scritta Jerusalem pendere dal separé nero dietro al quale mi spoglio. Ho visto due mani affilate scostare la tenda dalla finestra oscura del palazzo di fronte. Ho visto le feritoie buie dietro alle spesse lenti del vecchio barbuto che ogni notte mi spia. Mi sono coperta il seno con la seta della sottoveste e ho preso il candelabro che sta sul comodino sopra un telo bordò. L’ho scagliato nella direzione del vecchio che rapido è rientrato. Come la tenda.

Ma Enrica, no. L’ho uccisa.  L’ho stordita di schiaffi, le ho preso il collo e l’ho stretto fino a vederle cambiare il colore dei bulbi oculari, fino a non sentire più respiro.

Ho sentito in sottofondo la canzone popolare spagnola cantata da Victoria de Los Angeles, accompagnata da Gonzalo Soriano al piano. Musica di Manuel de Falla.

Ho respirato contando cinque minuti come insegna lo zen. Poi, tenendola per i capelli ho iniziato a sbatterle il cranio sulla sedia di ferro battuto dello scrittoio di legno antico. Mentre il sangue iniziava a schizzare, ne ho sentito il fetore.

Lo schienale della sedia ha degli intarsi come quelli incisi nell’oro nero di Toledo. Canta la voce tzigana nello stereo. Dicen que nos queremos…Adiós niña, hasta mañana…Le note passano dalla luce alla malinconia.

L’ho lasciata in una posa ambigua, perfetta per lei che amava Anais Nin.

Nella stanza c’è uno specchio. Ci vedo gli occhi bruni di Lorenzo che raccontano una storia, che parla di lui che parla di lei. E di Lorenzo mi toccano le mani, quelle mani che sanno tenerti stretta, a volte.

L’ho uccisa, respirando prima cinque minuti come insegna lo zen.

Ho visto tanta luce, una luce bianca avvolgente che mi faceva ascendere in un vortice che mi distaccava da terra, da tutto ciò che è materiale mortale.

Mi sono chinata sul corpo morto, ne ho accarezzato i capelli. Ho sorriso. Come fossi un angelo, il suo angelo. Mi sono alzata, ho allungato le gambe magre, mi sono infilata grandi occhiali scuri, mi sono accarezzata i capelli biondi, li ho raccolti sulla nuca con un fermaglio fatto di fili intrecciati. Ho indossato un microvestito nero e i leggins.

Sulla porta mi sono rollata una canna e ho aspirato. Sono uscita. Ho annotato qualcosa sul mio diario.

C’è nebbia questa notte.

C’è nebbia spesso in questa città.

Che non è la mia città.

E c’è una pioggerella sottile, obliqua.

Un uomo mi viene incontro. Cammina con i piedi sollevati dal suolo, pelle bianchissima, labbra scure di fuoco, ombretto grigio, indossa un orologio sulle tempie. Gli sorrido, scompare.

Mi siedo su una panchina. La luna illumina la borsa come una pila. Estraggo un foglio strappato. Risale all’aprile di due anni fa. Abbasso gli occhiali scuri e, dopo aver verificato che nessuno mi osserva, accarezzo il ferro della panchina. Sento odore di sangue, odore d’inganno.

Cara maestra, scusa il ritardo con cui t’invio i miei timidi vagiti letterari…Martedì devo proprio leggere? Non lo dico perché mi vergogno, tutt’altro, è che non credo di avere la voce adatta per catturare l’attenzione di un uditorio. Sai, mi hanno segata a una rivista secondo la quale nel mio racconto uso un linguaggio troppo aulico rispetto all’intreccio. Tu cosa ne pensi? E’ troppo aulico? Adesso prima di svenire sul foglio, ti mando un dolce bacio. Mi è piaciuto un sacco conoscerti. Hai davvero uno splendido modo di fare e di gestire il laboratorio, oltre che un’originalità tutta tua. Felice notte. Enrica.

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