L’ADDIO A FIDEL E I POPULISMI CHE AVANZANO

L'editoriale domenicale del direttore del Centro

Se ne va a novant’anni l’ultimo capo rivoluzionario comunista del Novecento. Se ne va Fidel Castro portandosi dietro il sogno irrealizzato del paradiso in terra, quella società socialista che, Karl Marx dixit, sulle proprie bandiere avrebbe dovuto scrivere “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Parole semplici che, in un secolo e mezzo di storia, con l’utopia rivoluzionaria del “Manifesto del partito comunista”, hanno alimentato i sogni di milioni e milioni di militanti, operai e contadini, in ogni angolo del mondo.

Abbiamo visto come sono andate le cose. Dalla mobilitazione delle grandi masse è certo sortita la spinta riformatrice che ha tratto dalla schiavitù del bisogno le fasce subalterne meno tutelate. Portando anche ad una rivoluzione dei diritti che trascurare è impossibile. Soprattutto per i sistemi di garanzia sociale che ha comportato per i più deboli. Regimi polizieschi e sovente sanguinari hanno però accompagnato spesso e volentieri questo cammino. Confinando infine per molti tra i rifiuti della storia l’idea stessa di socialismo.

Per i cultori del liberalismo e della democrazia rappresentativa, va da sé, ciò non ha mai rappresentato un problema. Anzi, questi incidenti sono stati ogni volta occasione per rivendicare la superiorità dei loro valori. Insieme alla necessità di relegare definitivamente tra le pagine più nere della scienza politica quella pur affascinante utopia.

Eppure, curiosamente, c’è un aspetto dell’esperienza marxista che anche i più duri rappresentanti dell’intellighenzia liberal invitano di tanto in tanto a considerare. E che spesso riaffiora persino nei servizi e nei commenti del Wall Street Journal, la Bibbia del capitalismo moderno (secondo taluni). Si tratta del metodo di indagine che ha guidato lo stesso Marx nella sua esplorazione dei sistemi economici, capitalismo compreso.

E’ proprio il valore residuo di questo metodo, secondo valenti studiosi, che andrebbe oggi riconsiderato. Per ricordare che la necessità di analizzare i meccanismi che governano il funzionamento delle nostre economie è sempre più stringente. Le disuguaglianze sociali aumentano infatti incessantemente, così come aumenta a ritmi sconosciuti fino a qualche tempo fa la polarizzazione della ricchezza.

Nel suo “Capitale nel Ventunesimo secolo” lo ha ricordato un paio di anni fa il francese Thomas Piketty. Diventando, anche per questo, una specie di superstar internazionale. Dopo di lui, purtroppo il silenzio. Che è il silenzio della ragione e la testimonianza più tangibile dell’incapacità degli studiosi contemporanei di indagare nel profondo la nostra società. Interrogandola sulle sue ingiustizie anche per mettere in campo ricette e soluzioni in grado di salvare il mondo dai facili populismi. Capaci solo di cavalcare la rabbia cieca degli emarginati e degli scontenti. Di ogni latitudine e ogni grado sociale. Dall’Africa all’Europa, dall’Oriente all’America.

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