L'esperto: cinghiali, patto per la gestione o sarà peggio

Lo zoologo Giuliani: le aree protette in metà regione sono serbatoi della specie

LANCIANO. Sono ovunque, anche sulle spiagge. Qual è il motivo? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Giuliani, zoologo, tecnico faunistico degli Ambiti territoriali di caccia Chietino-Lancianese e Barisciano. «Il tema del cinghiale è omogeneo, su scala nazionale ed europea», afferma Giuliani, «e l’Abruzzo è in linea con quello che sta succedendo sul paleartico occidentale. Ma non è sbagliato dire che il problema è globale, visto l’incremento demografico dei maiali selvatici anche negli Stati Uniti o in Canada».
C’è una spiegazione dietro al fenomeno? È vero che sono state introdotte sottospecie dai Paesi dell’Est?
«Quella dei cinghiali dell’Est è in parte una leggenda metropolitana. Tutto ciò che stiamo vivendo oggi con il cinghiale succede perché negli ultimi sessant’anni il paesaggio italiano, europeo e mondiale è cambiato. Assistiamo a un incremento delle superfici boschive in tutta Europa. E non solo. Si è assistito all’abbandono dell’agricoltura tradizionale e, ovunque, a un calo delle porzioni coltivate. Aggiungiamoci i cambiamenti climatici, con la mancanza di inverni freddi e di neve per periodi prolungati. L’equazione finale è l’incremento del cinghiale».
Che addirittura sono arrivati in riva al mare.
«Sono cresciuti gli spazi boschivi anche lungo le coste abruzzesi, basta vedere ciò che accade da Fossacesia a Vasto».
Esistono stime sulla popolazione di cinghiali in Abruzzo?
«Non nel dettaglio. In Abruzzo, però, la situazione è ancora più critica, perché più della metà del territorio è costituita da aree protette. Sono zone che fungono da serbatoi per queste specie. Ieri come oggi. I cinghiali si rifugiano nei parchi, preclusi alla caccia e ad efficienti attività di prelievo, e qui trovano aree sicure e capillari su tutta la regione. Il dato, però, lo possiamo desumere dagli abbattimenti. In Abruzzo l’incremento dei prelievi è notevole e in crescita, ed è il miglior segnale per valutare anche l’incremento della specie».
C’è immobilismo da parte delle istituzioni?
«Non direi. In Abruzzo, per dovere di cronaca, con questa legislatura e con quella passata qualcosa è stato fatto. Soprattutto si sta mettendo mano a un piano faunistico fermo da 30 anni. Questo ha consentito e consentirà di migliorare sensibilmente l’assetto gestionale della specie, ne sono testimonianza le attività di molti Atc, che garantiscono abbattimenti consistenti tutto l’anno. Ma ciò non basta».
Ed è evidente.
«In una regione come l’Abruzzo, dove ci sono tante aree protette, va costruito un patto regionale per la gestione del cinghiale. Un patto tra Regione, Atc, parchi regionali e nazionali. Ma è questa una responsabilità della politica che deve assumere decisioni e dare spazio alle competenze. Altrimenti non si risolverà niente e in futuro l’incremento demografico sarà ancora più sorprendente. Un problema è che le aree protette in Italia sono troppo ermetiche. È come se avessimo una Berlino est e una Berlino ovest. Invece l’Abruzzo può diventare la regione modello in Italia per la gestione del cinghiale. Il passo va fatto, anche per trasformare in risorsa quello che è problema».
Si riferisce alla commercializzazione delle carni?
«Un esempio arriva dal Chietino: nell’ultimo anno sono stati abbattuti ufficialmente 2.500 cinghiali, che in teoria muoverebbero un milione di euro».
Sono pericolosi?
«Nessun animale aggredisce. Gli animali si difendono. Se prende un passero in mano la beccherà, con un cinghiale... Sono pericolosi per la viabilità».
Come evitare incidenti?
«Oltre agli abbattimenti, occorrerebbero investimenti nei sistemi di prevenzione: dissuasori, recinzioni, ecodotti, passaggi sopraelevati per la fauna». (r.rs.)
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