Le dimissioni di Benedetto XVI Quel Pallio donato all’eremita Pietro

Era la tarda mattinata del 13 dicembre del 1294. Celestino V si presentò davanti ai cardinali nella sala del Concistoro, pronunciò un breve discorso, firmò il decreto o bolla che formalizzava la possibilità che un Pontefice potesse dimettersi, si tolse le vesti papali e si rinfilò il saio da frate. La scena si svolse nel palazzo imperiale di Napoli (Celestino non andò mai a Roma) sotto l'attenta regia del cardinale Benedetto Caetani che di lì a pochi giorni sarebbe diventato Bonifacio VIII. Allora non c'erano televisioni e giornali a rilanciare in tempo reale la notizia ma quel gesto fu scolpito per sempre nella storia della Chiesa. Bonifacio VIII però non sopportava di avere al fianco quell'uomo già Papa e scattò una persecuzione lunga quasi due anni che si concluse con la morte (secondo alcuni violenta) del frate nel castello di Fumone (Frosinone ) il 19 maggio del 1296. Stava per iniziare il periodo del grande scisma. E fu proprio un papa avignonese, Clemente V, nel 1313, che lo elevò agli onori degli altari. La canonizzazione faceva però riferimento non al Papa Celestino V, ma semplicemente al frate Pietro, eremita sul Morrone, il luogo della Maiella dove aveva trascorso gran parte della vita in raccoglimento e preghiera.

Le vicende storiche e spirituali di Papa Celestino V per oltre sette secoli sono state messe in ombra, complice forse anche il verso di Dante Alighieri che nella Divina Commedia parlò di «Gran Rifiuto» ponendo l’uomo che ne sarebbe stato protagonista tra le fiamme dell’Inferno. Oggi sono molti gli studiosi che negano che Dante volesse riferirsi al Papa del Morrone. Ma fino al 2009 quel verso è stato una sorta di marchio di infamia per il Pontefice i cui resti mortali riposano nella basilica di Collemaggio devastata dal terremoto di 4 anni fa. A riabilitare per sempre la figura del povero fraticello salito al Soglio di Pietro è stato proprio Benedetto XVI. Il 28 aprile del 2009 dopo aver fatto visita ai terremotati di Onna ed essere entrato nella chiesa parrocchiale semidistrutta, volle recarsi nella basilica di Collemaggio. La teca con i resti di Celestino fu avvicinata alla Porta Santa.

Benedetto XVI non doveva entrare ma con un gesto di coraggio che sorprese e preoccupò gli uomini della scorta si avvicinò alla teca, guardò le macerie provocate dal parziale crollo della basilica, prese il pallio (una particolare stola) che aveva ricevuto il giorno della sua elezione, nell’aprile del 2005, e la posò su Celestino V. Colui che da cardinale era stato l’erede degli inquisitori e ferreo difensore della tradizione aveva riconosciuto la forza del messaggio spirituale di quel suo predecessore e in qualche modo ne aveva approvato il gesto più rivoluzionario: la rinuncia a poteri e onori e il ritorno alla preghiera e al nascondimento.

Ieri, Benedetto XVI , a distanza di quasi 720 anni, ha rinunciato come Celestino V al trono di Pietro. A leggere le cronache dei due avvenimenti sembra il ripetersi di un copione immutato e immutabile nel tempo. Allora la Chiesa era scossa da contrasti interni e insidiata da poteri esterni, oggi i grandi e veloci mutamenti ne rendono complessa la gestione. Celestino al momento delle dimissioni aveva circa 84 anni (se si dà per buona, come data di nascita, il 1210, in una località del Molise), Benedetto XVI ne ha 86. Due uomini diversi: uno, quando fu eletto, non era nemmeno vescovo, l’altro ha percorso tutti i gradini della Curia Romana ed è stato consigliere e amico di Giovanni Paolo II, il Papa polacco suo predecessore. Eppure c’è qualcosa che li accomuna. Per capire cosa, bisogna andare a cercare nelle parole che Benedetto XVI pronunciò domenica 4 luglio 2010 a Sulmona dove il Papa volle andare in occasione degli ottocento anni dalla nascita di Celestino V.

«Viviamo», disse allora, «in una società in cui ogni spazio , ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Cari fratelli e sorelle, non abbiate paura di fare silenzio dentro e fuori di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri». E ancora: «Nel silenzio interiore, nella percezione della presenza del Signore, Pietro del Morrone aveva maturato un’esperienza viva della bellezza del creato, opera delle mani di Dio: ne sapeva cogliere il senso profondo, ne rispettava i segni e i ritmi, ne faceva uso per ciò che è essenziale alla vita».

Un invito, dunque, al silenzio e alla rinuncia a onori e poteri effimeri. Disse infatti citando San Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce».

In questa capacità di dire no alle “sirene” dell’esistenza terrena e nella voglia di tornare ai valori essenziali _ che per gli uomini di fede sono soprattutto la preghiera e il contatto quasi fisico con Dio _ Celestino V e Benedetto XVI _ personalità e Papi di due epoche storiche tanto distanti _ sono fondamentalmente uguali. Questo afferrarsi alla roccia della fede mollando tutto il resto, forse spiega perché la Chiesa di Cristo dopo oltre duemila anni è sempre fra noi e ci resterà a lungo.

Infine un ricordo personale. Ho avuto il privilegio di incontrare personalmente per tre volte Benedetto XVI (a Onna, a Sulmona, in Vaticano).

La prima volta, sinceramente, ne avrei fatto volentieri a meno. Fu il 28 aprile del 2009. Il Papa venne a Onna, uno dei luoghi simbolo del terremoto del 6 aprile 2009, per consolare l’inconsolabile.

In quel giorno, quando fu di fronte a me e seppe dei miei figli e di mio padre vidi nei suoi occhi stupore e sincero coinvolgimento. Mi guardò per un attimo, mi strinse la mano e non pronunciò parole di circostanza.

Pioveva, le sue scarpe erano sporche di fango. Ebbi l’impressione che, in tali accadimenti, anche per un Papa è difficile illuminare il mistero della vita e della morte.

Restava e resta solo una forma di consolazione: che quel mistero c’è ed è lì che va ancorata la speranza.

Giustino Parisse

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