Marsili, 50 anni di attività: ho le chiavi di ogni carcere

Lo storico fabbro, oggi 80enne, è diventato un punto di riferimento del ministero Cominciò a realizzare porte blindate dopo una richiesta arrivata dal San Donato

PESCARA. La maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane e non solo, ogni giorno legge sulle porte delle proprie celle “Marsili Ricerche Italia”, il nome dell'azienda produttrice delle stesse. Non tutti sanno però, che dietro a quel nome c'è un'azienda tutta pescarese, avviata ormai 50 anni fa e alla cui guida c'è ancora Egeo Marsili, nato il 21 novembre del 1936 a San Benedetto dei Marsi ma cresciuto a Pescara, essendo arrivato in città all'età di due anni. Padre di otto figli, risiede da sempre in via Pepe in zona stadio, mentre la storica impresa ha la sede in via Raiale nella zona della Val Pescara.

È da qui che, in pratica, quasi tutte le carceri italiane vengono rifornite di serrature, serramenti, infissi ed arredi realizzati in ferro e acciaio, sia automatizzati che non. Ieri, c’è stata una grande festa che ha unito lo spegnimento delle 80 candeline di Egeo e i 50 anni di attività, prima come Egeo Marsili Impianti di Sicurezza e dal 2002 Marsili Ricerche, da quando ad affiancarlo nel lavoro sono entrati tre figli: Marco, 52 anni, gestisce l'ufficio tecnico occupandosi di disegno e progettazione, Sabina, 49 anni, si occupa dell'amministrazione ed Ermanno, 42 anni, gestisce il discorso relativo alla produzione e ai contatti esteri.

Egeo, che ha mosso i primi passi come fabbro all'ombra del padre, anch'egli fabbro, è nato come artista del ferro per poi trasformarsi prima in artigiano e poi in industriale, grazie a un'intuizione geniale che lo ha portato a individuare un mercato fino a quel momento inesplorato, quello dei sistemi di sicurezza dei penitenziari. Un'azienda che oggi conta una trentina di operai (oltre cento negli anni d'oro) e che punta molto decisa sull'innovazione tecnologica con sistemi completamente automatizzati e che non cigolano grazie all'utilizzo del teflon. In sostanza, da Pescara, partono tutti i sistemi di sicurezza presenti nelle carceri italiane e anche in Paesi come Marocco e Tunisia.

Come nasce la sua attività lavorativa?

«Mio padre aveva un'officina da fabbro ad Alanno e io ho cominciato quando avevo 13 anni, ma non con lui, perché riteneva che non avessi la giusta soggezione. Mi mandò da un altro fabbro, ma lì durai solo 4 mesi, visto che mi accorsi di possedere una buona manualità e già mi muovevo in autonomia. Papà mi riprese con lui e restai fino ai 21 anni quando partii militare».

Dopo il militare si mise in proprio?

«Nel 1960 ho iniziato a lavorare qui a Pescara, facevo il fabbro comune al civico 1 di via Alento, dove ora passa la ferrovia. Ho lavorato quasi sempre da solo, per conto mio. Con papà facevamo i ferri per le pizzelle, le neole. Mio padre faceva un ferro ogni giorno, con me divennero 10 ferri al giorno, 11 il sabato, con un solo operaio che prendeva 400 lire al mese».

Il rapporto con suo padre come è stato?

«Lavoravamo e pranzavamo insieme, ma un giorno, mentre mi portavo il cucchiaio alla bocca mi chiese, per 3 volte, se mi fossi guadagnato quel pasto. Presi e andai via e iniziai a lavorare in proprio, però a posteriori quelle sue angherie mi sono servite molto per affrontare la vita. Con il tempo il rapporto migliorò e apprezzò quello che facevo».

Iniziò con lavorazioni artistiche del ferro, poi come è arrivato alle carceri?

«Iniziai con il ferro battuto, ma non piacendomi quel colore nero funereo, abbinai nuovi metalli fino al 1964, quando l'allora direttore del carcere di Pescara vide un mio lavoro in una villa e mi chiamò per realizzare una cancellata artistica nella cappelletta interna. Ma mi accorsi, mentre la guardia mi accompagnava, che le serrature non funzionavano e le porte venivano prese a calci per essere aperte. Mi dissero che stavano cercando nuove serrature proprio in quei giorni. Allora, proposi di farne una di prova e fargliela vedere. Erano le 4 di pomeriggio, la mattina dopo alle 11 portai la serratura realizzata nel corso della notte. Tre giorni dopo mi chiamò e mi commissionò 85 serrature, ricevendo poi in cambio 85 biglietti da 10mila lire».

E poi che cosa accadde?

«Lo stesso direttore mi consigliò di andare al ministero a Roma considerando che anche le altre carceri avevano lo stesso problema, non essendoci una fabbrica specifica in Italia per queste serrature. Al ministero mi dissero che la scelta era del singolo direttore, ma che circa 150 su 200 totali fecero richiesta per nuove serrature. Mi consegnarono l'elenco. Presi una Fiat 1300 e viaggiai in tutto il Paese per visitare i penitenziari. L'ultima tappa fu a Fermo, l'unica che non andò bene, perché il maresciallo facente funzioni di Chieti aveva già un accordo con un altro. E invece fu il primo a richiamarmi. Da lì, gli ordini si susseguirono e il lavoro crebbe molto».

E come passò a costruire porte, portoni e arredamenti delle carceri?

«Con il passare degli anni venivo ascoltato sempre di più nel ministero. Nei primi anni 70, vennero stanziati mille miliardi per rinnovare le carceri. Visto che sapevo farci con le serrature mi chiesero di provare con le porte. Come modello mi indicarono quelle francesi del moderno carcere di Rebibbia, ma io dissi al maresciallo che quelle porte sarebbero volate come foglie secche alla prima rivolta. E così fu. Io allora preparai un campione di porta a cancello, monoblocco con il telaio, che aveva già lo sblocco a distanza. Le prime porte vennero montate a Spoleto e Livorno e da lì il lavoro si decuplicò anche con le inferriate e gli arredi interni delle celle».

Gli arredi in ferro imbullonati al pavimento risalgono all'epoca delle Brigate Rosse, non un periodo facile.

«In quegli anni, qui davanti alla nostra azienda passava spesso la gazzella dei carabinieri perché ero ritenuto in pericolo e perché questo luogo era sensibile. I brigatisti erano tremendi e dovemmo costruire nuovi arredi indistruttibili, come i letti. Per loro abbiamo sviluppato al massimo la produzione. Un giorno mi chiamò il generale Dalla Chiesa il quale mi chiese, per le carceri di San Vittore, Torino e Genova, delle celle di massima sicurezza. Quando Vallanzasca scappò da una di quelle celle costruite da me ero sicuro che non fosse riuscito a evadere per un problema delle mia porta a cancello e infatti poi si scoprì che gli avevano dato le chiavi per 20 milioni di lire».

©RIPRODUZIONE RISERVATA