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Nazzareno Carusi: la mia vita per il pianoforte, sognando Celano

Concertista tra i più apprezzati, il musicista abruzzese è consigliere artistico del concorso Busoni. Gli inizi con zia Ninì, la formazione con i maestri della scuola russa, il riconoscimento internazionale

di Domenico Ranieri

La mano sinistra di un bambino di due anni abbraccia un trenino rosso e azzurro, lo sguardo cerca l’obiettivo mentre un ditino galeotto accarezza la tastiera di un toy piano a coda. Il destino di Nazzareno Carusi, oggi uno dei più brillanti pianisti al mondo, forse ha cominciato a scriverlo proprio quella manina curiosa il 9 novembre 1970, giorno del suo secondo compleanno. A distanza di 46 anni, Carusi sta vivendo uno dei momenti più esaltanti della sua carriera di pianista.

Allora, è stato proprio quel pianino a coda il suo primo contatto con lo strumento musicale che le ha dato la fama?

«In effetti sì, la mia vita senza pianoforte non me la ricordo. Le mani sul pianoforte, comunque, me le ha fatte mettere mamma».

Prime delusioni e prime soddisfazioni?

«Quando mi resi conto che l’insegnante che avevo non era capace, mentre la prima soddisfazione arrivò quando, proprio per questa ragione, mia madre si rivolse alla signora Annamaria Marrama di Avezzano, che noi chiamavamo zia Ninì, e che era stata la sua insegnante di pianoforte. Zia Ninì era una persona di famiglia, che era stata allieva della signora Mattei a Roma, a sua volta allieva di Giovanni Sgambati, uno dei più grandi pianisti della storia universale, oltre che compositore. Zia Ninì era anche la nipote di Mariannina Letta, la sposa morta sotto le macerie del terremoto, simbolo di quella tragedia, cui è stata eretta una statua al cimitero».

A Firenze, ancora ragazzino, a studiare pianoforte da solo, senza famiglia. Una specie di emigrante della musica?

«Con zia Ninì vinsi il primo concorso nazionale a 13 anni a Sulmona e finalmente, di lì a qualche tempo, conoscemmo Lucia Passaglia, che era una delle maggiori insegnanti didatte pianistiche italiane. Lei era a Firenze e io mi trasferii in Toscana quando avevo 14 anni. Entrai in corservatorio a 16, e vissi in collegio, quello dei Sette Santi. Risiedendo a Celano in via della Madonnina, mi autodefinivo l’ottavo santo (e giù una risata). Ero anche un discolo e ho ancora a casa le chiavi di tutte le porte del collegio. Io poi ero la mascotte di tutti, perché era un collegio universitario».

Mai un momento di ripensamento, di “saudade”?

«Tutto ciò è stato possibile grazie al coraggio dei miei genitori. Papà voleva sempre il meglio comunque e dovunque, qualsiasi cosa si facesse e aspirando sempre al meglio pensabile e non possibile. Il concetto di meritocrazia elevato all’ennesima potenza. Ho fatto mesi di assenza al liceo classico, nella sezione B, una delle più dure, e se io sono diventato quel che sono, se ho voglia di impegno non solo musicale, lo devo anche alla scuola, a professori come Esposito, Tolu, Taglieri».

L’incontro che le ha cambiato la vita?

«Sicuramente quello con Weissenberg che mi ha consentito di conoscere Viktor Merzhanov. Era il periodo di transizione dall’Urss alla Csi, alla federazione russa. Dopo aver conosciuto Merzhanov a Sulmona mi sono trasferito a Mosca qualche mese dopo, sono entrato nel conservatorio e ho vissuto nella Casa dello studente, dove ho incontrato per la prima volta l’attuale direttore artistico del concorso Busoni di Bolzano, Peter Paul Kainrath, il quale era mio compagno di corso nell’aula 28 del conservatorio Tchaikovsky, oggi intitolato a Merzhanov. E del Busoni oggi sono consigliere artistico».

Qual è il suo rapporto con Celano?

«È come con l’aria che respiro, come dice mia moglie Barbara, Celano è il centro del mondo e quindi anche lei ama Celano spropositatamente».

Amicizie, aneddoti?

«Quella con Massimiliano Paris, detto il Vecchio, va raccontata. Siccome aveva una notevolissima raccolta di dischi, io andavo spessissimo, a casa sua. Era ed è il mio amico del cuore. Ci mettevamo ad ascoltare i dischi e facevamo a gara nel riconoscere il titolo, gli esecutori e il direttore e garantisco che molto spesso ci pigliava più lui. È una delle persone in assoluto con l’orecchio mu. sicale migliore che abbia mai conosciuto. Infatti, quando vivevo a Celano, tutti i programmi di concorsi che ho vinto li provavo davanti a lui. Lo facevo venire a casa e lo sottoponevo alla tortura di ascoltare tutto il programma».

L’anno che sta passando è stato indimenticabile. In che misura ha inciso in questo la serenità della sua vita familiare?

«Il 2016 è un anno memorabile, forse perché sono all’alba dei 50 anni. Non sono più uno scavezzacollo, sono maturato e in questo una parte fondamentale la rivestono la mia famiglia e mia moglie Barbara Valli. Ho una famiglia allargata anche dal punto di vista geografico del termine, grazie alla personalità meravigliosa di mia moglie e all’affetto che resta con la mamma dei miei due figli canadesi. Siamo una famiglia allargata e unita che va in vacanza insieme e questo influisce sulla mia tranquillità. Sono concentrato esclusivamente sul lavoro. Pensi che mia moglie la mattina mi dà la paghetta e io al massimo vado a comprare i giornali. È tutto in mano a Barbara e io mi sento tranquillo, senza pensieri».

Lo nota anche quando suona?

«È per questo che riesco a suonare come suono. Anche nella mia visione musicale tutto questo si sente. Credo di aver raggiunto un equilibrio che prima non avevo. Ringrazio i miei figli, anche Riccardo, il figlio di Barbara, che è come se fosse figlio mio, nonostante il suo rapporto splendido con il padre. E poi Francesco ed Émilie, figli della mia prima moglie Karine, e ora la piccola Elisabetta, che ha 3 anni, da Barbara».

Ultima grande soddisfazione il titolo entusiastico della Nation in Argentina dopo un suo concerto a Buenos Aires.

«Sono onorato dell’attenzione di un prestigioso critico musicale. È il suggello di un anno straordinario».

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