NON C'È PIÙ NIENTE DA CAPIRE

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Non credevo che il solo pensare una cosa simile potesse sconvolgere la mia esistenza normale. Apparentemente normale, almeno fino a quel momento.

Avete presente quelle verità inconfessabili, quei segreti che si raccontano sottovoce e che ti lasciano inebetito mentre esclami «Non ci credo!». Che ti pongono mille domande alle quali non saprai dare risposte accettabili? Come quando ti parlano di qualcuno che conosci a cui è successa qualcosa che non ti saresti mai aspettato. E quel qualcuno sei tu.

A me è successo, lo ricordo bene, un giorno qualunque. Le dieci del mattino o le cinque del pomeriggio, non saprei dirlo. Ricordo che ero per strada che camminavo. Stavo andando da qualche parte, ma non saprei proprio dire dove.

Ricordo però che, all'improvviso, tutto mi era più chiaro.

Vi dirò, non era la prima volta che mi capitava, anzi. Mi succede spesso e quando meno te l'aspetti. Mentre guido, per esempio, la mente libera si lascia corteggiare e facilmente si concede a ogni sorta di pensiero. Ma anche a lavoro, o al supermercato, quando dimentichi cosa comprare. A volte il sabato sera, con gli amici, confuso tra parole eleganti di discorsi vani.

Stavolta però era diverso. Ho avuto la sensazione che qualcosa dentro di me fosse cambiato. Cambiato per sempre. Avevo capito tutto.

Ora che ci ripenso, non sono certo che stessi camminando per strada. Credo invece che fossi a casa, stravaccato sul divano a bere birra e fumare, davanti al televisore. Come ogni giorno. Anche perché da tempo quel pensiero non mi dava tregua. Puntuale, quando stavo per addormentarmi, arrivava a tenermi sveglio per tutta notte. Sapevo che più gli lasciavo corda e più mi avrebbe trascinato a fondo ma, quando me ne rendevo conto, ero già con la testa sott'acqua.

Quel giorno però (quando ero per strada, dico), a un certo punto le gambe erano diventate di pasta frolla e avevo freddo, come se mi avessero appena tirato fuori dal frigo. Ho avvertito un bisogno urgente di sedermi o di sdraiarmi. Ma avrei preferito liquefarmi e scivolare in un tombino, o diventare polvere soffiata via dal vento. Le sento ancora addosso le occhiatacce dei passanti. «Era un tipo strano» avrebbe detto qualcuno «andava avanti e indietro con lo sguardo perso nel vuoto». Qualcun altro, più educato, avrebbe detto che era pazzo.

Quel pazzo ero io. Un'insignificante particella nell'infinità dell'universo, un minuscolo puntino nello spazio che la sfiga, dopo aver preso bene la mira, aveva colpito senza compassione.

Tutto, intorno, cominciava ad andare verso l'alto. Mi ero aggrappato al muro e mi ero ritrovato rannicchiato a terra col mento sulle ginocchia. Una passante si era fermata e mi aveva chiesto se stavo bene. Credo di non averle neppure risposto.

La mia mente aveva cominciato a funzionare come quando riavvolgi il nastro di una videocassetta, quando sullo schermo vedi il film tornare indietro veloce. Soltanto che ciò che vedevo non era un film.

Era giunto il momento in cui non puoi più scappare, quando ti trovi con le spalle al muro, solo al mondo, a sostenere il peso della vita. Il momento in cui ti sforzi di darle un senso e non ci riesci. Ti chiedi come certe cose possano accedere. Quante probabilità si hanno che accadano e, soprattutto, perché proprio a te. Ti disperi per uno straccio di spiegazione, una misera rassicurazione o solo un caldo abbraccio che in questi casi non arriva mai. E ti senti finito. Ma è così che scopri che una fine non è mai la fine ma solo un nuovo inizio.

Adesso era tutto chiaro. Avevo capito tutto. Adesso che il sole stava tramontando. Oppure sorgendo.

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