OBIETTIVO VACUITÀ

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Giunse all'arrivo il corridore, e ciò che lesse, con stupore, fu la parola "Partenza". Aprì bene gli occhi provando a leggere meglio, ma il cartello, sì, recitava quella sequenza di lettere: "Partenza". Perfino il sudore che l’aveva accompagnato durante tutto il tragitto rimase sbalordito, incredulo, dopo aver iniziato il proprio percorso lì, sulla fronte, e poi vedersi precipitare dal mento al suolo, e così morire, senza assaporare la soddisfazione nel poter leggere la parola "Arrivo". Lì aveva inizio la partenza dell'arrivo, o arrivava la partenza dell'inizio. Lo si può scrivere come più aggradi, lo si può esprimere in diversi modi - abbiamo una lingua, la nostra, che permette di farlo - ma il senso ne rimarrà pur sempre il medesimo: nulla era finito, nessuno era giunto a compimento, cosicché tutto era da compiere.

Cadde a terra il corridore, quasi sfinito. Le ultime energie vennero assorbite dalla visione shockante di quel dannato cartello. «Chi mai può sentirsi realizzato? Un uomo cosciente di aver faticato per nulla? ».

Nel frattempo, passò un cane sulla pista da corsa, uno di quelli di taglia piccola, con zampe robuste, e dall'aspetto curato. Si sa bene che ad un cane del genere non gli si può dare del randagio, ed invece, sorprendentemente, lo era, in quanto aveva dovuto combattere per assicurarsi il pasto della giornata. Era sera, e la stessa fatica provata dal corridore era quella patita dal cane, forse entrambi soddisfatti a metà. Il corridore aveva comunque concluso la propria corsa, ed il cane si era tuttavia procurato ciò di cui sopravvivere. Ma queste vittorie - lo sappiamo tanto noi quanto essi - erano momentanee, illusorie, palliative. Il corridore, nonostante avesse conquistato l’arrivo, non era giunto da nessuna parte, se non davanti ai caratteri cubitali della "Partenza". Il cane, nonostante il pezzo di cibo tra le fauci, non aveva posto rimedio alla fame nient’altro che per un breve momento. Qualcosa, o probabilmente molto più, li univa in quella difficile situazione, ma comunque non si trattava del momento opportuno per concepire riflessioni di questo genere.

Il corridore si lasciò andare ad un pianto senza fine, scosso nel profondo dallo shock subito. Di fronte a lui, non un podio, né gente ad acclamare, né i fiori profumati comprati il giorno stesso della gara, né il fotofinish, né le fotocamere coi flash: non c'era niente. Ma a guardar bene, c'era qualcosa di più: la sua stessa persona. E non solo: la pista appena percorsa, i suoi pantaloncini corti (molto corti), la sua maglietta, il suo corpo, il suo numero di riconoscimento. Inoltre l'aria intorno a lui, e tutto il mondo infine. Non bastasse questo, egli aveva con sé la propria coscienza, mentre il cane riusciva, suo malgrado, a sopravviverne senza.

Si trovarono così vicini in quel momento e così lontani; il cane, cieco nella propria incoscienza, ed il corridore, che continuava a chiedersi il perché di una mancanza di gloria così silenziosa.

Doneremo al cane un nome fittizio («Un nome fittizio? Un nome lo è sempre»): Gabriel. E faremo lo stesso anche per il corridore, di cui non ci è dato sapere il nome («Reale? Fittizio? Non fa più differenza»). Ne vengono suggeriti due: "Ricky" e "Morfeo"... Vada per Morfeo.

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