Pescara, la vita di una donna nell'ex Cofa a un euro al giorno / Foto

Un’ex badante romena di 51 anni nell’ex mercato: questa è la mia casa da 4 anni, se la demoliscono andrò in un parco

PESCARA. L’immagine della disperazione scorre tra i mille stracci stesi ad asciugare sugli stendini di fortuna, tra i resti di un pasto frugale consumato in mezzo alla sporcizia dell’ex mercato ortofrutticolo e tra i materassi ammucchiati a due passi dal Ponte del mare, il simbolo tirato a lucido di una città che cerca di ripartire dalle sue opere incompiute. Gli occhi sono quelli di Anka, una donna di 51 anni, di origini romene, che osserva in disparte l’ennesimo sopralluogo nei 23mila metri quadrati dell’ex Cofa, effettuato ieri mattina dai rappresentanti delle commissioni Urbanistica e Grandi infrastrutture del Comune. «Ma che fanno la demoliscono?», chiede con la voce velata di apprensione.

Da quattro anni e mezzo quei capannoni in disuso sono diventati la sua casa. E quella di centinaia di senza fissa dimora, di ogni nazionalità, che di giorno percorrono invisibili le strade della città cibandosi di tutto ciò che trovano nei cassonetti della spazzatura, mentre di notte scavalcano i cancelli per stringersi tra la sporcizia dei locali che un tempo ospitavano gli stand destinati alla vendita di frutta e verdura.

La gente che non ha più nulla va avanti grazie alla beneficenza di qualche volontario della Caritas o alla donazione occasionale dei parroci del quartiere.

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«Non ho paura», dice la donna spalancando i suoi grandi occhi azzurri, «sono arrivata in Italia per fare la badante. Ho lavorato di notte per diversi mesi, ho assistito una donna anziana di 93 anni. Quando è morta ho provato a cercare altri impieghi, ma non sono riuscita a trovare nulla. Non posso permettermi una casa e quindi sono arrivata qua come tanti altri. Se abbattono questa struttura andrò da un’altra parte: in un parco oppure sulla spiaggia, in qualche modo si farà. L’unico timore è se domani non riuscirò a trovare nulla da mangiare. Solo questo mi preoccupa».

FOTO: Le immagini del degrado

Anka ha perso tutto dalla vita: non ha famiglia, non ha un impiego né un luogo sicuro dove trascorrere la notte.

«Ma non sono sola», dice con convinzione, «vivo con un uomo, un siciliano con il cuore buono. Io mi vergogno a entrare qua dentro, ma non posso fare altro. Abbiamo pulito con il disinfettante una stanzetta al primo piano dove prima ci andavano gli zingari per fare i loro bisogni. I vetri sono rotti e d’inverno fa freddissimo, ma noi ci mettiamo le coperte e poi accendiamo il fuoco con l’alcool. Il problema sono i topi: abbiamo provato a ucciderli mettendo il veleno, ma non ci facciamo niente perché sono troppi».

La storia di Anka è uguale a tante altre. Cambiano i nomi di questa schiera di invisibili che vivono ai margini del centro abitato e di notte si raggomitolano sui pavimenti dell’ex mercato ortofrutticolo, in un giaciglio ricavato tra la puzza di urina e gli stracci ammucchiati.

Il tratto comune è la disperazione. «Siamo in centinaia», aggiunge la donna, «qui ci sono italiani, polacchi, marocchini, tunisini e gente dell’est. Ognuno occupa uno spazio: bianchi da un lato, neri dall’altro e zingari da un'altra parte ancora. Ma non ci sono bambini per fortuna, quelli li tengono da un’altra parte. Noi ce ne stiamo per fatti nostri: la mattina presto usciamo e poi torniamo quando si fa buio con quello che abbiamo trovato: nella spazzatura spesso ci sono frutta o insalata. Ogni due giorni un prete mi dà due euro, cerco di farmeli bastare per comprare qualcosa. Altre volte andiamo a mangiare alla Caritas. Qualsiasi cosa va bene, basta che non rubiamo. Non l’ho mai fatto perché non è una cosa giusta».

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