Pescara, porto chiuso e zero soldi: ritira i figli dall’università

Il dramma di un marinaio messo alle strette dal mancato dragaggio del porto. L’associazione armatori si compatta: "Siamo una famiglia, resisteremo"

PESCARA. Il dramma della marineria pescarese al collasso lo raccontano gli occhi lucidi di Claudio, un papà di due studenti universitari costretto a dire ai suoi figli che non può più mantenerli negli studi. «Sono bravi ragazzi, mi hanno dato tante soddisfazioni», si lascia andare, «ma adesso devo ritirarli. Senza soldi come posso pagare le rate del secondo semestre a Lingue e Medicina?». Con la cassa integrazione arretrata (1.800 euro per i mesi di ottobre, novembre e dicembre 2012) a stento si potranno saldare le bollette arretrate, l’affitto di casa e qualche spesa medica che era stata rimandata. «È un peccato, ma non posso farci niente», ribatte l’uomo.

Oggi quello che resta della grande marineria cittadina che da sola portava avanti l’economia del porto e trainava i diversi settori dell’indotto, è un gruppetto sorridente e verace di portuali, stanchi della lunga stagione di promesse mancate e dei continui rinvii, ma convinti più di ogni altra cosa che la tradizione legata al mare non può andare perduta e dimenticata per colpa di un dragaggio che stenta a decollare. Per questa ragione ogni giorno i pescatori continuano a incontrarsi negli spazi dell’associazione armatori, a due passi dal mercato ittico chiuso e di fronte al gazebo costruito sul lungofiume Paolucci. Le bombole del gas le hanno prese dalle barche ormeggiate alla banchina e le hanno portate negli spazi di fronte al Bar del porto dove ha trovato ospitalità anche l’Inter club. «Tanto è quasi un anno che non andiamo a pescare, non ci servono là sopra», osserva Domenico, un altro dei 166 lavoratori dipendenti rimasti a secco di stipendio e ammortizzatori sociali. I marinai pranzano insieme con quelle provviste che gli portano amici e conoscenti o che comprano a turno ai banchi degli ambulanti. Si scambiano le notizie sulla politica cittadina, sulle vicende dello scalo insabbiato e su quanto va il pesce fresco all’ingrosso a Ortona o Giulianova. «Abbiamo passato qui Natale, la vigilia e Capodanno. Abbiamo portato anche mogli e figli: ci conosciamo tutti, siamo una grande famiglia che si vuole bene. Adesso ci facciamo pure Pasqua nell’associazione, perché tanto il porto non lo riaprono prima della fine di aprile», aggiunge Mimmo Grosso. Il loro è un modo genuino per stare insieme, per sorreggersi a vicenda nonostante le difficoltà e le tristi storie di vita familiare che si raccontano di fronte a un caffè o a una mano a carte. «Ho una lampara che dava lavoro a 14 persone», spiega Massimo Camplone, «una piccola azienda familiare che adesso è stata messa a terra. Qui tra noi c’è gente che sta pensando a gesti estremi». «Da stamattina», ribatte suo cugino, Massimo Camplone, «i fornitori di San Benedetto mi hanno chiamato almeno 10 volte. Non gli rispondo perché non so dove prendere i soldi per pagare le reti e i cavi d’acciaio. Mi vergogno, ma ho 40mila euro di lavori arretrati alla mia barca che è stata quattro mesi ferma. Chiederò una dilazione, altro non posso fare. Devo pure dare da mangiare alla mia famiglia in qualche modo».

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