Un curato di montagna

Il David al teramano Saverioni per il film su un prete abruzzese

Due premi al Trento Film Festival e l’ingresso nella cinquina finalista del David di Donatello. Il documentario «Diario di un curato di montagna», del cineasta teramano Stefano Saverioni, decolla in due manifestazioni prestigiose, il più antico festival dedicato alla montagna e l’Oscar del cinema italiano.

 Proprio quando sembrava che l’outsider abruzzese dovesse rimanere sulla porta delle rassegne che contano, ecco i riconoscimenti importanti.
 Saverioni, classe 1977, studi in Scienze ambientali e poi al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, una lunga gavetta nelle televisioni locali, si licenzia nel 2005 da un posto fisso per dedicarsi totalmente al progetto del «Diario», incentrato sulla figura di don Filippo Lanci, giovane prete con la passione per la fotografia d’arte, che vive il suo impegno di sacerdote nei paesi sui fianchi del Gran Sasso teramano, in una parrocchia che abbraccia Cerqueto, Pietracamela, Intermesoli, centri toccati duramente dal terremoto.

 Prodotto da Monotroupe, in associazione con L&R Comunicazione, Cinik Records, Cineforum Teramo, il «Diario di un curato di montagna» è stato scritto da Stefano Saverioni insieme a Pietro Albino Di Pasquale.
 Saverioni firma oltre alla regia anche fotografia e montaggio, mentre Enrico Melozzi, altro teramano, è autore delle musiche.
 Al 57º Trento Film Festival, diretto da Maurizio Nichetti e con Giuliano Montaldo presidente di giuria, il film di Saverioni si è aggiudicato il premio della stampa Bruno Cagol e il premio Città di Imola.

 Questa la motivazione: «La montagna scabra, delineata magistralmente dalla regia di Stefano Saverioni, spazio metafisico e ancestrale dove un giovane curato inquieto e sognatore si trova a fare i conti con i silenzi e le solitudini di piccole comunità. In questo scenario, così distante da rappresentazioni spettacolari, i piccoli paesi d’Abruzzo che costituiscono la parrocchia di don Filippo Lanci rischiano di essere luogo di esclusione e di reclusione, ma nello stesso tempo offrono l’opportunità irripetibile di riflettere sul senso più profondo della nostra vita e del nostro destino».
 Ma il «Diario», che riecheggia non solo nel titolo l’opera di Bernanos-Bresson, ha costituito per il regista un’occasione di riflessione anche sulla propria fede, come spiega al Centro.

 «Volevo capire cosa significhi dedicare la propria esistenza al divino, alla fede, al servizio della Chiesa, e soprattutto comprendere la difficoltà di essere prete in una piccola realtà di montagna. Da piccolo ho fatto il chierichetto, poi a 17 anni sono diventato un illuminista convinto. Ma il cattolicesimo le è rimasto rimane dentro. Volevo fare un film su un prete, sulla difficoltà e bellezza della sua vita, per capire anche il mio rapporto con Dio, senza giudicare attraverso la razionalità».

 A questo punto avviene il suo incontro con Don Filippo Lanci, un prete giovane e pieno di domande.
 
«Don Filippo è un prete atipico, fotografo d’arte. Mi ha colpito la sua sensibilità nel rapportarsi con le persone. Non è un prete austero, ieratico. Attraverso la sua storia ho cercato di capire cosa vuol dire essere prete oggi, a 35 anni, in un posto isolato, quando il mondo va da tutt’altra parte».

 Lei ha iniziato a girare il «Diario» nel novembre 2005 e ha seguito don Filippo per quasi due anni. C’è stata un’evoluzione nella scrittura del film in corso d’opera»?
 
«Dopo un anno mi sono accorto che il materiale non era sufficiente e che anche don Filippo cambiava. Lui era alla sua prima nomina, e all’inizio racconta questa sua difficoltà, quasi metafisica, nell’affrontare la montagna. Con lo sceneggiatore Pietro Albino Di Pasquale abbiamo trovato la chiave per esprimere la spiritualità che stava emergendo dalla storia, e il film ha iniziato a caricarsi di significati profondi».

 Al di là dei premi, com’è stato accolto il film a Trento?
 
«Era il mio primo confronto con un pubblico e ho colto una gran voglia di dibattere, forse perché il film tocca temi che coinvolgono. Molte persone anziane mi hanno ringraziato. C’è stata grande partecipazione. Alcuni critici mi dicevano: Meriti la Genziana (il premio principale, Città di Trento-Genziana d’oro, andato al film “Sonbahar” del turco zcan, ndc), e Montaldo ha aggiunto: Ma che fai qua? Vattene a Venezia».

 Si aspettava i premi di Trento? E immaginava di entrare nella cinquina finalista del David di Donatello?
 
«A Trento mi aspettavo qualcosa, perché il festival si stava spostando sui temi delle culture materiali della montagna, vista anche come luogo simbolico e non solo sede di sport estremi. La notizia dell’ammissione del “Diario” nella cinquina del David è invece arrivata inattesa, mentre noi del Cineforum Teramo stavamo festeggiando per l’ammissione, nella sezione cortometraggi, della Madonna della frutta, il film di Paola Randi girato a Teramo, con la produzione esecutiva del Cineforum e anche qui le musiche di Enrico Melozzi. Una gioia che è stata completata dalla presenza nella cinquina dei migliori documentari del film “Non tacere”, dell’aquilano Fabio Grimaldi. Alla serata finale del David venerdì (oggi per chi legge ndc) ci saranno tanti abruzzesi».

 Il “Diario” è ambientato tra Pietracamela, Cerqueto, Intermesoli, paesi che hanno subito grandi danni dalle ripetute scosse sismiche. Il suo film diventa anche una testimonianza da luoghi in cui la vita, già difficile, è diventata ancora più dura.
 
«Le chiese della parrocchia di don Filippo sono chiuse, e sappiamo che le chiese in montagna sono il luogo in cui si incentra l’identità della comunità. Le case sono lesionate, molta gente se n’è andata. Il terremoto ha messo in ginocchio una zona già in crisi per un cronico processo di spopolamento. Eppure queste sono comunità bellissime, molto unite, e la gente si è organizzata da sola prima che venisse riconosciuto lo stato di emergenza. Però ormai la stagione turistica è saltata. C’è un silenzio tombale».