Crac teramani, la Cassazione non libera Curti e Di Pietro

Respinto il ricorso più importante per i due imprenditori arrestati per la bancarotta

TERAMO. La Cassazione mette un punto fermo e scandisce i tempi finali dell'inchiesta sul crac Di Pietro. I giudici della quinta sezione della Suprema Corte respingono il ricorso della difesa: gli imprenditori Guido Curti e Maurizio Di Pietro restano in carcere. Per conoscere le motivazioni bisognerà aspettare, ma è evidente che l'impianto accusatorio della procura supera un importante banco di prova. Dopo i tre pronunciamenti del gip, il Riesame e l'Appello, anche la Cassazione dice no alla scarcerazione dei due imprenditori teramani in cella dal 27 gennaio per una bancarotta da 15 milioni di euro. E' ipotizzabile che dopo il pronunciamento della Suprema Corte, la procura (il caso è del procuratore Gabriele Ferretti e del pm Irene Scordamaglia) si avvii a chiudere l'inchiesta del crac con una richiesta di giudizio immediato per i sette indagati. Chiusa questa indagine, però, i magistrati sono decisi ad aprire altri stralci per illuminare le tante zone d'ombra emerse in questi mesi. Mesi in cui il pm ha sentito sia gli indagati sia le persone informate sui fatti.

LA DIFESA. L'avvocato Cataldo Mariano, difensore di Di Pietro (e fino a qualche tempo fa anche di Curti), ha presentato il ricorso per entrambi. Così commenta il no della Cassazione: «Ribadisco l'esistenza di alcune circostanze che destano perplessità nel procedimento, a cominciare dal fatto che vede la Cassazione ribaltare il suo stesso orientamento. La seconda circostanza è che pur in attesa della richiesta di assistenza al procuratore elvetico (la rogatoria ndr) il pm improvvisamente e senza attendere l'esito dell'inchiesta ha avanzato, ottenendola, richiesta di custodia cautelare. L'ulteriore circostanza è che la richiesta di custodia cautelare ha seguito di pochi giorni un esposto denuncia presentato alla Dia dell'Aquila dal curatore fallimentare Fasciocco».

I SEI NO. Il pronunciamento della Suprema Corte arriva a pochi giorni dal sesto no alla scarcerazione di Curti in 94 giorni di detenzione. Lunedì mattina, infatti, il gip Marina Tommolini, ha stabilito che l'imprenditore debba restare in cella perchè la sua confessione - quella in cui si è autoaccusato della gestione delle società del crac - è stata solo una strategia per tornare in libertà. Il giudice non ha usato giri di parole per motivare il provvedimento con cui ha respinto l'istanza degli avvocati Guglielmo Marconi e Luca Gentile, i nuovi difensori dell'imprenditore. Secondo il magistrato, oltre a permanere le gravi esigenze cautelari, Curti non si sarebbe pentito realmente, ma avrebbe solo cambiato strategia con l'unico obiettivo di ottenere la libertà. «Si dubita che vi sia un reale percorso di resipiscenza da parte dell'indagato», ha scritto il gip, «che pur di uscire dal carcere (per poter seguire più da vicino le sorti delle varie società di cui formalmente o di fatto si occupa o si è occupato) ha deciso semplicemente di cambiare (oltre al difensore) anche la strategia difensiva».

IL DIETRO FRONT. La nuova istanza di scarcerazione è stata presentata dopo circa dieci giorni dal secondo interrogatorio dell'imprenditore che, su sua richiesta, è stato risentito in carcere dal pm Scordamaglia. In quel contesto, a differenza di quanto detto nel primo interrogatorio, Curti si era autoaccusato della gestione delle società del crac escludendo ogni coinvolgimento del commercialista Carmine Tancredi, che non è indagato. Un dietro front che per la procura, ma evidentemente anche per il gip, non ha modificato il quadro indiziario messo insieme in vari mesi di indagini. Curti e Di Pietro sono i principali dei sette indagati nell'inchiesta per il crac milionario e i fallimenti pilotati che ha portato anche al sequestro delle quote di due società che avevano sede legale nello studio commerciale del presidente della giunta regionale Gianni Chiodi e del suo socio, il commercialista Tancredi. Si tratta della Kappa Immobiliare e della De Immobiliare Srl, società controllate al 99% da sodalizi ciprioti e che per l'accusa sono le tappe finali dei soldi provenienti dai fallimenti di quattro società svuotate dei beni e fatti rintrare in Italia dopo un giro su vari conti esteri. Le quote di queste due società sono state sequestrate su disposizione dello stesso gip Tommolini.

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