Dan Fante rivela a Roseto: «Così ho sconfitto l’alcol»

Presentato al Liberty il libro di poesia sulla vita spericolata dello scrittore che mostra una data del 1986 tatuata sulla nuca: quel giorno smisi di ubriacarmi

ROSETO. Il 31 dicembre 1986 è una data importante per Dan Fante. Tanto importante che ha deciso di imprimerla in maniera indelebile sul suo corpo, tatuandola sulla nuca. Quello, infatti, è il giorno in cui lo scrittore italo-americano si è ripreso la sua vita dicendo per sempre no all’alcol. Fino a quel momento aveva consumato la sua esistenza trascinandosi sul lato selvaggio dei marciapiedi di New York, tra taxi puzzolenti, donne e debiti, bourbon e, soprattutto, il fantasma del padre, John Fante, anche lui scrittore e sceneggiatore. Le sue esperienze di quei giorni, ormai lontani, sono stati raccolti in un libro di poesie dal titolo ‘Gin e Genio’, presentato ieri mattina all’hotel ‘Liberty’ di Roseto da Paolo Di Vincenzo, su iniziativa di Emidio D’Ilario e Luciano Di Giulio, rappresentanti del Circolo filatelico-numismatico rosetano e dell’associazione ‘Terra e Mare’. L’autore della raccolta ha letto nella lingua originale alcune poesie pubblicate nel suo libro, subito dopo recitate in italiano dall’artista Giorgio Mattioli con il sottofondo musicale del giovane pianista rosetano Roberto Porta.

«Tuo figlio è un fottuto scrittore. Puoi essere fiero di lui. Adesso il suo cognome gli appartiene», così scrive Ben Pleasants del poeta italo-americano rivolgendosi ipoteticamente al padre John Fante, usando un linguaggio crudo e diretto: proprio come quello che appartiene al modo di scrivere di Dan Fante. «Il regalo di John Fante per me» scrive in una delle sue poesie il figlio Dan «è stato il suo cuore puro di scrittore». Una frase ripresa anche da Fernanda Pivano, la quale commentava: «A quanto pare questo regalo ha funzionato: nonostante l’alcol, la droga, la miseria e la disperazione, Dan Fante ha conservato la purezza d’animo del padre e, attraverso la sua poesia, ci racconta splendide storie».

A vederlo oggi, Dan Fante non sembra affatto l’uomo uscito dall’inferno da lui stesso descritto. Cappello da cow-boy, occhiali di Groucho Marx e un sorriso per tutti. Ma quel volto solcato da rughe profonde racconta di una vita vissuta sempre al limite, ma senza farne un dramma. «Quando sarò giunto alla fine» recita un altro dei suoi versi «annientato e stremato dalla mia stessa dolce follia voglio che si rida e si raccontino barzellette alla mia veglia funebre».

Per descrivere l’inferno della prima parte della sua vita, Dan Fante utilizza un linguaggio crudo, a volte violento, ma dietro l’apparente scorza rude dell’uomo vissuto nei bassifondi dell’America più selvaggia, traspare l’animo di una persona alla ricerca di se stesso. «Nulla riempie il vuoto della solitudine», così chiude un’altra sua poesia, con una frase che sembra riferita al fratello Nicholas (Nick), un genio della Nasa, «morto investito come un cane mentre ubriaco barcollava in strada». Forse anche lui, così come l’ingombrante presenza del padre John, ha influito sulla vita spericolata di Dan.