Morì in corsia, i familiari chiedono un milione 700mila euro alla Asl 

Finisce davanti al tribunale civile il caso del 27enne operaio rosetano Giuseppe Piccioni A febbraio il giudice penale ha assolto i quattro medici imputati di omicidio colposo

ROSETO. E’ nelle aule di tribunale che le tragedie cercano un perchè. Almeno giudiziario. Sette anni dopo la morte di Giuseppe Piccioni, – il 27enne rosetano deceduto all’ ospedale di Atri dopo un ricovero di 31 giorni iniziato con un’appendicectomia – e dopo un lungo processo finito a febbraio con l’assoluzione di quattro medici, i familiari citano la Asl davanti al tribunale civile chiedendo un milione e 700mila euro di danni. Per la mamma, il fratello e la sorella (assistiti dall’avvocato Claudio Iaconi) ci fu malasanità.
L’inchiesta scattò dopo l’esposto dei familiari: la prima consulenza medica disposta dalla Procura escluse da subito una contaminazione da anisakis (parassita che si trova nelle alici crude), come era stato ipotizzato in un primo momento. Al contrario, secondo i consulenti della pubblica accusa, la morte sarebbe stata causata da una forte disidratazione. Successivamente i periti Claudio Modini e Maurizio Busi nominati dal tribunale hanno indicato in una diffusa infezione batterica ed edema cerebrale le cause della morte. E in attesa che la causa civile faccia il suo corso, le 81 pagine con cui il giudice Franco Tetto ha motivato la sentenza di assoluzione (con la formula del fatto non costituisce reato) ben ricostruiscono la vicenda e soprattutto chiariscono, a cominciare proprio dalla differenza tra colpa lieve e colpa grave della legge Balduzzi, il contesto normativo-giuridico della colpa medica. Non mancando di evidenziare «profili di rimproverabilità comportamentale». Scrive a pagina 45: «Gli imputati hanno tenuto un comportamento professionale censurabile in quanto non ispirato al massimo scrupolo diagnostico differenziale, nel caso di specie imposto dalla oggettiva complessità e gravità della situazione di “rischio” patologico che avrebbero potuto (rectius dovuto) governare adottando scelte operative più tempestive ed efficaci rispetto alla stessa (tardiva) richiesta di consulenza rianimatoria avanzata dal collega di turno soltanto nel tardo pomeriggio del 16 luglio 2010».
Ma specifica a pagina 71 «che deve pervernirsi alla conclusione che il complessivo comportamento tenuto dagli imputati non risulta in concreto essersi connotato da una “ragguardevole divergenza” (colpa grave) rispetto alle raccomandazioni sia diagnostiche che terapeutiche riferite ad un normale decorso clinico correlato sia alla tipologia di intervento chirurgico al quale era stato sottoposto il giovane paziente, sia agli standard terapeutici ordinariamente adottati per fronteggiare eventuali stati patologici di disidratazione ipernatriemica».E chiude: «Tuttavia, anche nella triste vicenda per cui è processo, non può non osservarsi che il giudice penale non è il giudice della vittima, nè dell’imputato: è, e deve essere, il giudice del fatto».
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