Parà di Pineto ustionato dall’acido Dopo 20 anni il caso non è chiuso 

La famiglia di Marco Cordone ricorre per la causa civile contro la caserma del caso Scieri Il papà Costantino: «Abbandonati dallo Stato senza ottenere giustizia per un atto di nonnismo» 

PINETO. I macigni nel tempo sono diventati macerie. E’ subentrata la rabbia perché dopo vent’anni il senso di ingiustizia ha spazzato via tutto. «Mio figlio oggi è un invalido e lo Stato resta a guardare senza fare niente. Non lo ha fatto quando bisognava punire i colpevoli, non lo fa oggi per aiutarci»: Costantino Cordone ha 70 anni, vive a Pineto e dal 1997 combatte contro lo Stato. Suo figlio Marco era un parà della Folgore di poco meno di vent’anni quando nella caserma Vannucci di Livorno bevve acido al posto dell’acqua: da allora sopravvive con gravissime lesioni all’esofago che lo costringono a continui ricoveri in centri specializzati. «Un incidente» hanno stabilito due processi tra Livorno e Firenze assolvendo l’allora commilitone unico imputato, «un atto di nonnismo» non si stancherà mai di ripetere papà Costantino.
Il 28 novembre all’Aquila è fissata l’udienza d’appello per la causa civile contro il ministero della Difesa dopo che in primo grado il ricorso è stato respinto perché secondo i giudici ormai prescritto. Ma l’avvocato Achille Ronda, che da anni segue la famiglia, è andato in Appello affidandosi alla differenza sostanziale stabilita dalla Cassazione tra prescrizione contrattuale ed extra contrattuali.
Ed oggi che il caso di Emanuele Scieri riporta in primo piano i colpevoli silenzi della caserma della Folgore dopo che la commissione d’inchiesta ha accertato che quel militare non si uccise ma venne ucciso e lasciato agonizzante per giorni, papà Costantino sceglie parole affilate per gridare il suo dolore. «Sono contento per la mamma di Scieri che in questi anni non si è mai arresa ed è riuscita ad ottenere giustizia anche se suo figlio non c’è più», dice, «in vent’anni per noi non è cambiato niente, siamo passati da un tribunale all’altro, ho venduto una casa per pagare tutte le spese legali, ma Marco non ha avuto giustizia». Dal punto di vista penale tutto è finito nel 2003 quando la corte d’appello di Firenze ha assolto il commilitone che quel giorno prestava servizio in caserma e che aveva lasciato la bottiglietta di acido per lavastoviglie che venne scambiata per acqua. In primo grado nell’aprile del 2000, il tribunale di Livorno lo aveva condannato a due mesi di reclusione (convertiti in mille euro di ammenda) per il reato di lesioni colpose. Per il tribunale non fu dolo, ritenendo che la bottiglia riempita di acido fosse stata lasciata per negligenza nel bar della caserma e per errore scambiata per acqua. I familiari di Marco, invece, sono sempre stati convinti che quello che accadde alla Vannucci fu un atto di nonnismo. Al processo di primo grado i genitori riferirono che il figlio si era messo a rapporto dai superiori per denunciare gli episodi di nonnismo che accadevano nella caserma e doveva andarci in quello stesso giorno. Dall’inchiesta, però, non è mai emersa nessuna prova di collegamento tra i due fatti e il tribunale di Livorno ha escluso l’intenzionalità dell’accaduto. «E’ scandaloso il fatto che dopo vent’anni siamo ancora al punto di partenza», dice Costantino, «anzi siamo tornati indietro perché i giudici penali hanno stabilito che fu solo un incidente, un semplice incidente e basta. A quei giudici io farei vedere come vivo mio figlio che oggi ha 40 anni e resterà invalido a vita. Mi chiedo che giustizia sia quella che non chiarisce e soprattutto non punisce. Io sono stanco, molto stanco, e soprattutto deluso da uno Stato che è sempre più assente e che lascia soli i cittadini. Perché io e la mia famiglia in questi vent’anni ci siamo sentiti disperatamente soli nel portare avanti la battaglia».
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