Un caso di Tbc tra i migranti ospitati nel residence di Roseto

Cresce la diffidenza verso gli stranieri ospitati all'hotel Felicioni: alcuni vorrebbero tornare a casa, altri chiedono di lavorare

ROSETO. Sembrava l'ennesimo falso allarme ma ora l'incubo tubercolosi tra i 134 migranti ospitati al residence Felicioni di Roseto è diventato realtà. Tre di essi presentavano martedì sera dei sintomi sospetti, tanto da convincere i responsabili della struttura ricettiva a farli trasportare al pronto soccorso dell’ospedale di Giulianova. Uno è stato subito rimandato al centro di accoglienza perché non aveva niente, un altro è stato curato per una polmonite e il terzo ricoverato all’ospedale di Pescara per una febbre. Tutto lasciava pensare che non ci si trovava difronte a un caso di Tbc, poi la doccia gelata dai rusultati delle analisi esguite nell'ospedale di Pescara: per uno dei tre migranti «è stata confermata la diagnosi di Tubercolosi da micobacterium complex (Tbc)».

A comunicarlo è stata la direttrice sanitaria dell'Asl di Teramo Maria Mattucci. «Sono spiacente di dover comunicare che, al contrario di ciò che ieri auspicavo il paziente ricoverato a Pescara, a differenza di tutti gli altri, risulta affetto da Tbc», si legge in una nota. «Preciso che lo stesso ospite era stato screenato, una volta arrivato in Italia, qualche mese fa, ed era risultato negativo ai test che di routine vengono effettuati, ma la malattia, evidentemente, era in incubazione, e solo stamani ne abbiamo avuto conferma. Sottolineo, e questo è molto importante, l’attenzione della Asl su tutti gli ospiti del centro e su tutti coloro che sono entrati in contatto con il paziente che oggi risulta ammalato. Per queste persone sono già in essere le procedure dei “contatti stretti”, che prevedono controlli ravvicinati nel tempo. Ad oggi, tutte queste persone, sono negative ai test».

L'allarme Tbc diventa quindi realtà e Roseto ripiomba nella psicosi come già accaduto qualche giorno fa per tre casi analoghi, poi rivelatisi anch’essi ingiustificati, tranne uno che ancora sotto osservazione. Già il semplice sospetto aveva alimentato il clima di ostilità che aleggia sui profughi dal loro arrivo nella struttura che li ospita.

A guardarli da vicino ci si accorge che si tratta di ragazzi che hanno alle spalle storie tremende nonostante la loro giovane età. Come quella di Henry, 31 anni proveniente dalla Nigeria, il quale zoppica vistosamente e indossa un guanto nero sulla mano sinistra. «Un gruppo di Boko Haram (organizzazione terroristica di matrice islamica, ndr) è venuto nel negozio che avevo in Nigeria per chiedermi il pizzo», racconta il giovane in un inglese perfetto, mostrandoci le tremende cicatrici a mani e piedi, «e al mio rifiuto hanno dato fuoco al locale riducendomi in queste condizioni».

Il suo sguardo è triste, come d’altronde quello della maggior parte di coloro che condividono la sua condizione, ma poi si rasserena quando gli chiediamo della sua terra: «Spero di tornare presto in Nigeria dove ho lasciato mia moglie e i miei tre figli, anche se devo dire che a Roseto mi trovo bene e la gente che ho conosciuto è gentile con me». Ma non tutti si sono mostrati garbati allo stesso modo con i migranti, come accaduto a Bakary Doumbia, per tutti Baks, un ragazzo atletico di 22 anni vissuto nel Gambia ma nativo del Mali, il quale conosce 9 lingue ed è traduttore ufficiale per il tribunale di Teramo. «Lui frequentava una palestra a Roseto», racconta uno dei responsabili del residence, «ma quando si è sparsa la voce della Tbc è stato gentilmente pregato di non andarci più». Ne chiediamo conferma allo stesso Baks, il quale però ci spiazza con la sua risposta: «Nessuno si è mai comportato male con me a Roseto, forse qualcuno è un po’ sospettoso nei nostri confronti perché non abituato a vedere tanti neri, ma a parte questo la città ci ha accolto molto bene».

Bocca cucita da parte di Precius, 25 anni nigeriano, il quale si rifiuta di raccontare la sua storia perché il ricordo è ancora fresco nella sua mente. Come il terrore vissuto. Tra gli ultimi arrivati c’è Sarang Kan, un pakistano di 50 anni, il quale comunica con noi attraverso la traduzione di Samir, afgano, entrambi ben integrati grazie anche alla presenza in città di un negozio di frutta aperto da poco gestito da loro connazionali. Qualcuno si nasconde quando cerchiamo di fotografare un gruppo. Gli chiediamo il perché. «Non sono in condizioni tali da poter essere fotografato», dice Godwin, «perché non sono vestito bene». Qualche altro interviene in maniera scherzosa, ma subito c’è chi lo riprende. «Dobbiamo parlare di cose serie», dice infatti Ferius, «come la nostra salvezza che è il vero motivo per cui noi siamo qui, così come il lavoro che cerchiamo con insistenza ma la risposta è sempre negativa». Loro sono disponibili per lavori socialmente utili, come descritto nel progetto inviato al Comune diversi mesi fa, al quale però non c’è stata risposta.

Federico Centola

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