Discarica di Bussi, ecco gli addebiti del ministro al giudice Romandini

Negli atti del ministro Orlando i rilievi disciplinari al presidente del processo in Corte d’Assise

ROMA. A tre giorni dall’avvio del processo di appello sull’inquinamento a Bussi sul Tirino non si placano le polemiche e gli strascichi seguiti alla gestione del primo grado di giudizio. Finito con un’assoluzione per gli imputati (amministratori e dirigenti della Edison e funzionari addetti alla protezione ambientale) dal reato di avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione, mentre per quello di disastro ambientale, derubricato a colposo, è intervenuta la prescrizione. La posizione del presidente della Corte di Assise di Chieti, Camillo Romandini, è ancora sotto la lente di ingrandimento. Lo scorso 6 maggio il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha deciso di esercitare l’azione disciplinare chiedendo al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione di procedere alle indagini. Il Centro ha potuto visionare la documentazione che restituisce una fotografia significativa, non solo del quadro delle accuse che vengono contestate in sede disciplinare al magistrato. Ma anche dello scambio di informazioni, a tratti frenetico, tra gli uffici giudiziari sul caso.

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Ultima cena. Dalle carte emerge che le incolpazioni nei confronti di Romandini riguardano fatti estremamente circostanziati. Gli si contesta l’illecito disciplinare per aver «adottato un comportamento gravemente scorretto nei confronti di alcuni giudici componenti il collegio». I fatti sono riassunti in una nota in cui si dà conto della ormai famosa cena di due anni fa (il 16 dicembre 2014) a tre giorni dalla decisione della Corte di Assise sul processo Bussi. Occasione conviviale a cui Romandini aveva preso parte, insieme al giudice a latere e a tutti i componenti della giuria: una cena offerta nel ristorante-pizzeria di un più ampio complesso immobiliare di proprietà di uno dei giudici popolari stessi. Proprio in quella circostanza avrebbe parlato del rischio che l’azienda potesse rivalersi su ciascuno dei componenti della Corte nel caso avessero emesso una sentenza di condanna per dolo nei confronti degli imputati. «Comportamento gravemente scorretto, questo - si annota nell’incolpazione - in quanto consistito nell’interloquire suggestivamente con gli altri componenti del collegio ipotizzando certi esiti decisori del processo in ambito diverso dalla sede propria della camera di consiglio e prima dello svolgimento della stessa».

Pressioni indebite. Ma non è tutto. Romandini, sempre a maggio scorso è stato incolpato anche per avere «posto in essere un’ingiustificata interferenza» nell’attività degli altri componenti la Corte d’Assise e segnatamente i giudici popolari. «Il Romandini, infatti, peraltro mistificando completamente gli effetti della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati, neppure ancora vigente all’epoca dei fatti e di cui comunque i giudici popolari non erano a conoscenza, incideva impropriamente sulla autonomia e serenità di giudizio di questi ultimi, indirettamente condizionando l’esito decisorio del processo». Interferenza ricordata anche dal ministro Orlando nella trasmissione degli atti al pg di Cassazione. La documentazione vergata dal Guardasigilli il 6 maggio scorso è corredata dalla Relazione inviata al ministero di via Arenula dall’Ispettorato generale il 13 aprile 2016 ma anche da altre carte, compresa una nota della Direzione nazionale magistrati, datata 4 maggio 2016. Particolarmente eloquente è la chiosa usata da Orlando prima di scrivere nero su bianco, la sua decisione di avviare l’azione disciplinare: Romandini avrebbe prospettato ai giudici popolari il rischio di azioni risarcitorie nei loro confronti «senza chiarire la disciplina di legge in concreto applicabile ed i limiti della responsabilità civile dei giudici popolari, limitata alle sole ipotesi di dolo».

Impresa incompatibile. Ma c’è dell’altro. Perché a tre mesi da questa prima incolpazione, il Procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, ha deciso di promuovere nei suoi confronti l’azione disciplinare per un’ulteriore circostanza emersa evidentemente nel corso dell’acquisizione di informazioni sul suo conto: il magistrato avrebbe infatti svolto attività incompatibili con la funzione giudiziaria «consistenti nell’esercitare una impresa individuale a proprio nome, iscritta nel registro delle imprese di Pescara della quale provvedeva a chiedere per via telematica la cancellazione solo a luglio del 2015, dopo la richiesta di chiarimenti che gli era pervenuta dal Presidente del Tribunale». E del resto anche il 2015 non era stato un anno tranquillo per Romandini, sebbene alla fine si fosse chiuso nel migliore dei modi possibili. Il 14 ottobre, a seguito di articoli di stampa riguardanti la sentenza emessa alla fine dell’anno precedente, il Procuratore generale di Campobasso, Maurizio Grigo, aveva scritto al capo della locale procura molisana di «essere notiziato» sullo stato del procedimento, questa volta penale aperto a carico del magistrato. Una sollecitazione formulata «per aderire alla richiesta formulata dall’Ispettorato generale presso il ministero della Giustizia». E cosa ne è stato di quella richiesta?

Indagini chiuse. La risposta del procuratore di Campobasso, Armando D’Alterio, non si fece attendere che pochi giorni. Con un’informativa del 30 ottobre indirizzata anche al ministero della Giustizia, al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione e anche al presidente della Corte di Appello dell’Aquila. In cui si informava dell’intenzione di chiudere le indagini preliminari entro dicembre dello stesso anno, cosa che puntualmente avvenne. Ma anche di aver già proceduto «all’acquisizione dei verbali di udienza, della sentenza e degli appelli proposti». Il procuratore di Campobasso D’Alterio diede inoltre conto di aver sentito a sommarie informazioni venti testimoni e di aver proceduto all’interrogatorio dell’indagato. Ma di aver anche acquisito diverse informative di polizia giudiziaria. E di aver emesso un decreto di acquisizione di «tabulati telefonici e n. 8 decreti di acquisizione di documentazione bancaria». Perché si erano resi necessari? Per le voci su un pagamento di danaro raccolte durante l’indagine condotta a Campobasso. Di cui, la procura, che ha poi richiesto l’archiviazione, non ha evidentemente trovato prova.

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