Atessa, il dipendente della controllata Fiat«Io, reintegrato e pagato per non lavorare»

Claudio Trivellone lavorava come sorvegliante alla Sevel, la partecipata Fiat che ha sede ad Atessa e produce i furgoni Ducato. Licenziato, è stato poi reintegrato dal giudice. Ma da aprile del 2009 è a casa in attesa di chiamata

ATESSA. E' a casa da più di un anno, Claudio Trivellone. La Sevel, l'azienda per cui lavora, gli paga lo stipendio ma non lo vuole sul posto di lavoro. Come è accaduto ai tre operai dello stabilimento Fiat di Melfi, così succede anche nella fabbrica di Atessa dove si producono i furgoni Fiat.

Trivellone, 54 anni di cui 26 passati a lavorare alla Sevel come sorvegliante, è stato licenziato il 5 maggio del 2008 e reintegrato con sentenza del giudice Flavia Grilli del Tribunale di Lanciano, il 24 aprile dell'anno successivo. Da allora non ha mai potuto rimettere piede sul posto di lavoro.

Poche righe per comunicargli che «per esigenze tecnico-organizzative viene dispensato dal rendere in servizio l'attività lavorativa», e che «ferma la retribuzione, resterà a disposizione dell'azienda presso il suo domicilio in attesa di nuove indicazioni».

E Trivellone è lì che aspetta di essere richiamato, ma nel frattempo il suo posto lo ha preso un altro. Ogni mese, pur di non fargli mettere piede nello stabilimento, gli spediscono la sua retribuzione base a casa, con raccomandata e ricevuta di ritorno.

«Quando un operaio finisce il suo orario di lavoro può fare quello che vuole», afferma, «io sono a disposizione dell'azienda 24 ore su 24. Il mio legale, Vincenzo Gatta, ha chiesto di avere uno schema della turnazione, ma non gli hanno risposto».

Questo signore alto e robusto non può svolgere nessuna attività, e deve avvisare l'azienda se decide di passare qualche giorno fuori o se è malato.

«Ho chiamato il capo del personale e mi sono sentito dire che ero in ferie dal 2 al 22 agosto, e che dal 23 sarei stato di nuovo a disposizione dell'azienda».

Trivellone racconta di essersi sempre comportato da dipendente modello, «mai una lettera, nessun rimprovero, addirittura per il 25esimo anno di attività ho ricevuto uno stipendio in più e una targa di benemerenza che ho appeso in sala».

Di tanti anni di lavoro è rimasta solo quella targa: «I miei colleghi, gli amici di una vita, non mi telefonano più, hanno paura di parlare con me, c'è una sorta di dittatura in azienda».

Trivellone era stato licenziato in tronco dopo che il colosso Sevel gli aveva messo alle costole un investigatore per verificare la veridicità di un suo infortunio. Il sorvegliante aveva subito una distorsione alla caviglia sul posto di lavoro. Era tornato in fabbrica dopo un periodo di convalescenza, ma dopo qualche tempo aveva riaperto la pratica di infortunio con l'Inail perché il dolore era tornato a farsi sentire. Altri 45 giorni, durante i quali la Sevel lo ha fatto pedinare, mentre era nel negozio della moglie o con un amico a comprare vernici. E lo ha licenziato.

Ma il dipendente indossava un tutore e soprattutto non era soggetto a visite di controllo.
Solo un escamotage per liberarsi di lui, secondo Trivellone. «Forse davo fastidio a qualcuno, in azienda o sei con loro o sei contro di loro». E nella stessa situazione sembra ci siano almeno altri quattro lavoratori.

«Per due mesi circa mi hanno anche messo in cassa integrazione», continua Trivellone, «nonostante nel reparto di sicurezza industriale, quello a cui appartengo, non sia mai stata applicata».

La Sevel ha dovuto anche versare all'uomo le retribuzioni maturate dall'illegittimo licenziamento al momento della reintegra, ma per ottenere la somma dovuta l'avvocato Gatta ha dovuto fare richiesta di pignoramento presso la banca.

Intanto la Sevel ha fatto ricorso alla Corte d'Appello dell'Aquila e la sentenza è prevista per il prossimo 11 novembre.

Ma anche Trivellone non resta fermo. E' in cura da uno psichiatra per lo stato di ansia e di malessere in cui è caduto dopo il licenziamento e la mancata effettiva reintegra sul posto di lavoro. Il prossimo passo è una denuncia per mobbing.

«Io ho sempre indossato la divisa da sorvegliante con orgoglio e rigore, non posso arrendermi a questa ingiustizia. Non voglio essere pagato per nulla, voglio lavorare».

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