La storia dei briganti in un museo

A Sante Marie raccolta di documenti sul fenomeno che insanguinò il Sud

SANTE MARIE. Un Museo sul brigantaggio e l’Unità d’Italia. Ad allestirlo il Comune di Sante Marie nei locali del restaurato Palazzo Colelli. I numerosi documenti esposti, forniti dall’Archivio di Stato e da privati, in particolare da Gianvincenzo Sforza di Celano, raccontano la storia di un fenomeno, il brigantaggio nel Mezzogiorno, dopo l’Unità d’Italia, che affondava le radici nelle secolari condizioni di miseria delle popolazioni meridionali. Dal nuovo governo i contadini, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, si aspettavano la riforma agraria.

Le risposte invece furono la pena di morte per chi occupava le terre; l’istituzione del servizio militare obbligatorio; l’introduzione di nuove tasse e l’abolizione del diritto d’uso delle terre demaniali. Provvedimenti che generarono una profonda ostilità verso il nuovo governo, spingendo contadini, pastori, braccianti, renitendi alla leva a unirsi agli sbandati del disciolto esercito borbonico e a organizzarsi in bande dedite a ogni forma di razzia. Numerose le estorsioni, come risulta dai biglietti dei capi briganti.

Si ordina a famiglie benestanti di inviare subito soldi, oro, vestiti, generi alimentari, per decine e decine di persone. Con l’avvertimento che se l’ordine non fosse stato eseguito, sarebbe scattata la rappresaglia. Anche se non si può parlare di un brigantaggio al femminile, alcune banditesse, di cui sono esposte le foto, parteciparono attivamente a molte azioni compiute dalle bande comandate dai loro uomini, condividendone il loro destino fino alla fine. Tra queste Michelina Di Cesare, compagna di Francesco Guerra; Maria Lucia Nella, compagna di Ninco Nanco; Filomena Pennacchio, compagna di Luigi Alonzi, detto Schiavone; Maria Giovanna Tito, compagna di Carmine Crocco.

Il brigantaggio veniva alimentato e sostenuto dal re di Napoli, Francesco II, che dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie da parte di Garibaldi, dovette fuggire a Roma. Per riportare sul trono Francesco II, fu mandato in Italia da Carlo di Borbone, un generale catalano, Josè Borjès, un uomo leale, coraggioso, di grande carisma. Aveva il compito di unificare le bande dei briganti e organizzare la rivolta contro il Regno d’Italia. Con un manipolo di soldati spagnoli, il 13 settembre 1861, sbarcò in Calabria. Qui né il brigante Mittica né il brigante La Galla vollero sottomettersi alla sua autorità.

Borjès passò allora in Basilicata, dove si unì ai briganti di Carmine Donatelli, detto Crocco, e di Ninco Nanco. Ben presto, però, dovette prendere atto dell’indifferenza dei briganti al programma di restaurazione borbonica. Il loro unico scopo erano le rapine e il saccheggio, come accadde dopo l’occupazione di Trivigno (Potenza). Una condotta definita dal generale legittimista «biasimevole». E per questo cacciato via. Durante la battaglia di Pietragalla (Potenza), infatti, Borjès fu disarmato e allontanato da Crocco, che lo considerava un «povero illuso».

«Se non rifiutai di unirmi a lui», dirà successivamente Crocco, «è perché Boriès, in quanto esperto di guerra, ci sarebbe stato d’aiuto a conquistare paesi e città e arricchirci col saccheggio e i ricatti». Borjès cercò allora di raggiungere attraverso l’Abruzzo Roma, dove sperava di trovare dei partigiani leali, con cui organizzare l’insurrezione. Ma, tradito da un tale Benedetto Ippoliti, di Sante Marie, l’8 dicembre 1861, fu catturato dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini nella cascina Mastroddi, in Valle di Luppa (Sante Marie), e fucilato lo stesso giorno a Tagliacozzo, insieme ad altri undici spagnoli e otto italiani.

Ai bersaglieri, che costituivano il plotone di esecuzione, avrebbe detto: «Coraggio, giovinotti, amate l’Italia, difendetela, fatevi onore» (Gattinara). Non un bandito fu, dunque, Borjès, ma un soldato che combattè per degli ideali e al quale gli atti di brigantaggio ripugnavano. Sante Marie, più di ogni altro, ha contribuito alla «riabilitazione» di Borjès. Oltre a organizzare ogni estate, sotto la direzione artistica di Bruno Rossi, delle manifestazioni per onorare la memoria del generale spagnolo, quasi a voler cancellare l’onta del tradimento di un proprio concittadino, ha allestito un Museo con documenti che ne esaltano le fierezza e la lealtà.

E che consentono di cogliere le ragioni profonde del brigantaggio, che erano prettamente sociali. Saverio Sipari, zio materno di Benedetto Croce e sindaco di Pescasseroli, nel 1863, in una lettera ai censuari del Tavoliere delle Puglie, osservava: «Il brigantaggio è miseria, miseria estrema, disperata. Date la terra ai contadini e il fucile scappa di mano». Analisi non dissimile da quella della commissione parlamentare d’inchiesta (1863): «Il brigantaggio è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». Invano deputati dell’area democratica, come Giuseppe Massari e Francesco De Sanctis, cercarono di convincere il governo ad adottare misure che rimuovessero le cause del brigantaggio. Prevalse la linea dura.

Fu approvata, infatti, una legge, che porta il nome dell’aquilano Giuseppe Pica, con cui venivano istituiti i tribunali militari e autorizzate le fuciliazioni sommarie. Contro i briganti venne impiegato l’esercito, al comando del generale Luigi Pallavicini, lo stesso che fermò Garibaldi sull’Aspromonte. Il brigantaggio fu represso nel sangue, ma i problemi che l’avevano originato rimasero insoluti. E negli anni successivi tanta gente del Meridione, per sfuggire alla miseria, dovette emigrare.

L’obiettivo del Comune ora è quello di far conoscere il Museo. «Presto», assicura il sindaco Giovanni Nanni, «metteremo in rete il materiale raccolto, al fine di invogliare tante scuole a visitare il Museo, unico nel suo genere in tutto l’Abruzzo. Le scolaresche che verranno da lontano, volendo, avranno vitto e alloggio gratis». Sante Marie, piccolo paese della Marsica, dovrebbe essere presa da esempio. Pur non disponendo di grandi risorse, ha portato avanti un’iniziativa di grande spessore storico-culturale. Basta crederci nelle cose.