<strong>L’intervista. </strong>Gli effetti della crisi si riflettono sul comparto dell’industria e delle costruzioni

Pmi e artigianato i più colpiti

L’economista Mauro: rischiamo l’aumento della soglia di povertà

PESCARA. Aziende che falliscono a un tasso di crescita mai visto e occupazione in picchiata. Se la crisi assume forme devastanti al Nord, in Abruzzo porta alla luce una condizione di grande fragilità.
Commenta così i dati del Cerved group, Pino Mauro, docente di economia alla d’Annunzio. «La prima considerazione da fare è che la ripresa prevista nel secondo semestre 2009 è stata lenta, irregolare. Il che spiega gli effetti negativi sul tessuto imprenditoriale».

Su quale base ci si poteva aspettare una ripresa?
«Le previsioni si fanno sugli ordinativi e l’utilizzo degli impianti. Da quei dati sembrava che la tendenza si dovesse invertire».

Si può dire oggi che la previsione era sbagliata?
«La tendenza c’è, ma ripeto è lentissima. Non a caso l’Istat ha rivisto la previsione del Pil 2009 portandola al 5%, prima era stimata al 4,2%. Questo è un sintomo. Sono venute meno due questioni fondamentali: una ripresa accentuata dei consumi e l’apporto dell’incremento occupazionale. Perché se è vero che il tasso di disoccupazione italiano è inferiore a quello degli altri Paesi europei, il guaio è che cresce mese per mese».

Questo sul piano generale, e in Abruzzo?
«Dall’indagine del Cerved emerge che i fallimenti riguardano i due settori produttivi che sono i pilastri del sistema economico abruzzese. Se venisse confermata la tendenza generale, ci troveremmo di fronte alla crisi profonda dell’industria e del comparto delle costruzioni, settori che tradizionalmente trainano l’occupazione».

Chi rischia di più in questa fase?
«Le Pmi e l’artigianato sono i più sottoposti alle conseguenze della crisi, le aziende che lavorano nell’indotto delle grandi imprese».

E’ possibile individuare segnali positivi da uno scenario di destrutturazione?
«Con i fallimenti si restringe la base di impresa e si contrae l’occupazione, l’aspetto positivo è che dal mercato vengono espulse le aziende meno pronte al cambiamento, quelle che non hanno affrontato per tempo i processi di ristrutturazione».

Come si colloca l’economia abruzzese?
«Stiamo vivendo la crisi in modo più acuto rispetto ad altre regioni. Questo accade perché c’è stato il terremoto, ma anche perché la crisi colpisce soprattutto l’industria. L’Abruzzo è la quinta regione d’Italia per valore aggiunto prodotto nel settore industriale, la settima per livelli occupazionali impiegati nell’industria. Parlo soprattuto di due province: Chieti e Teramo. Cosa si rischia? L’aumento della soglia di povertà».

Si può ancora scommettere sull’industria?
«Da diverso tempo dico che una forte componente industriale non può mantenersi nel tempo, perché sono in atto processi di globalizzazione e di concorrenza aggressiva e asimmetrica, cioè non corretta, da parte di Paesi emergenti. Intere filiere produttive si stanno spostando verso altre aree del mondo. Accanto al nostro apparato industriale dovremmo potenziare il terziario, che in Abruzzo è al di sotto della media nazionale. Parlo di politiche del turismo, servizi avanzati alle imprese. Non possiamo puntare solo sull’industrializzazione con indici di occupazione del 31%».