Addio ad Aprà, una vita per il cinema 

Romano, 83 anni, il critico si appassionò alla settima arte negli anni Sessanta

Era romano fin dalla nascita ma si muoveva, elegante e silenzioso, come un lord inglese: Adriano Aprà che se ne è andato ieri a 83 anni (era nato il 18 novembre del 1940) faceva parte di quella eletta schiera di critici cinematografici – oggi una razza in via di sparizione – che fin dal primo scritto ambivano a essere più «storici» che «critici».
Per tutta la sua vita infatti Aprà ha provato a rintracciare nei film che vedeva, recensiva, sceglieva, sosteneva, le tracce di un’idea della Settima arte come mezzo per scandagliare la realtà con l’occhio proiettato nel futuro. La sua storia è quella del cinema italiano ribelle che all’inizio degli anni ’60 comincia a fare i conti con l’eredità del neorealismo per proiettarne le idee su una scena profondamente rinnovata. Laureato in legge si appassiona al cinema all’inizio degli anni '60, scoprendo insieme Hitchcock e Rossellini, la generazione dei Cahiers du cinéma e i nuovi autori italiani che seguirà sempre con rigorosa amicizia e passione critica, da Bernardo Bertolucci a Marco Bellocchio. La fioritura delle riviste di cinema in Italia lo appassiona da subito e per questo milita prima in Filmcritica con Edoardo Bruno e poi fondando e dirigendo nel 1966 il trimestrale Cinema & Fim. Lavora alla Garzanti per la collezione Laboratorio diretta da Pasolini, scrive sui giornali (Avanti e Reset), frequenta i talenti più sperimentali dell’immagine come Jean-Marie Straub, Marco Ferreri e poi Bernardo Bertolucci per cui si farà anche attore autoironico e sofisticato. È quasi naturale che il suo percorso di ricerca si incroci prima con quello di Lino Micciché (fondatore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro) e poi con una più giovane schiera di critici-organizzatori culturali. Si mette alla prova in prima persona nel 1977 dirigendo un festival che farà tendenza (il Salso Film & Tv Festival) nella stagione dei «mille fiori» della ricerca su nuovo cinema mondiale. Un po’ compagno di strada e un po’ rispettato «fratello maggiore», tiene a battesimo il gruppo dei «giovani turchi» con cui Carlo Lizzani rilancia nel 1979 la Mostra del Cinema di Venezia. Insieme a lui Enzo Ungari, Patrizia Pistagnesi, Enrico Magrelli, Giovanni Spagnoletti. Tra i suoi contributi di quella stagione la grande retrospettiva dedicata a Howard Hawks e il visionario convegno sul cinema degli anni '80. Si prova anche come regista (Olimpia agli amici, 1970), non smette mai la sua attività di osservatore ironico e distaccato delle trasformazioni del cinema, dal punto di vista del linguaggio e della tecnica. Nel 1990 succede a Micciché alla guida della Mostra di Pesaro ed è proprio grazie a questo sodalizio che viene chiamato a dirigere la Cineteca Nazionale nel 1998. Quattro anni dopo sarà anche professore di cinema all'università di Tor Vergata a Roma. I suoi scritti fanno ancora oggi tendenza tra i teorici del nuovo cinema. La sua riflessione sulle forme del cinema rimane una felice eccezione nel panorama della critica cinematografica.