PROIEZIONE GRATUITA A PESCARA – INtervista agli autori CALANDRA E LIGUORI  

Al Docudì Festival c’è “La Casa viola” «Viaggio nel dolore e nella rinascita»

PESCARA. La Casa viola è una dimora protetta per donne vittime di violenza che hanno trovato la forza di fuggire dall’incubo. “La Casa Viola” è il documentario su questa vitale realtà dei filmmaker...

PESCARA. La Casa viola è una dimora protetta per donne vittime di violenza che hanno trovato la forza di fuggire dall’incubo. “La Casa Viola” è il documentario su questa vitale realtà dei filmmaker pescaresi Francesco Calandra, regista, e Maria Grazia Liguori, sceneggiatrice e produttrice. Il film è in concorso domani nel festival Docudì, organizzato a Pescara da Acma. Appuntamento alle 18.30 nell’auditorium Cerulli (ingresso gratuito) per la proiezione alla presenza degli autori.
Calandra, com’è nata l’idea del documentario sulla Casa Viola?
«Da tempo volevamo affrontare il tema, indagare origine e conseguenze della violenza di genere e domestica, che coinvolge anche i bambini che assistono agli abusi nei confronti di madri e sorelle. C’è stato un contatto fortuito con una delle persone che lavorano nella Casa, e parlando con lui abbiamo deciso di mettere in pratica l’idea di un lavoro sulle donne che vi trovano rifugio».
Quante donne avete incontrato e come avete lavorato per guadagnarne la fiducia ed evitare di esporle?
«È stato un lavoro lungo tre anni. Abbiamo incontrato una decina di donne. La Casa accoglie le donne e ha la possibilità di ospitare anche i loro bambini. È un posto riservato per tenere al sicuro queste persone, non conoscono l’indirizzo né le forze dell’ordine né l’assistenza sociale, ma solo l’associazione che lo gestisce. Nella troupe eravamo io, l’operatore e il fonico, oltre a Maria Grazia. Non è stato facile girare, non essendo possibile riprendere i volti delle donne sotto protezione, né particolari, come un tatuaggio, un orecchino, tramite cui il maltrattante potesse risalire all’identità della donna. Non sono donne abruzzesi, vengono da altre regioni e anche dall’estero, per evitare che il maltrattante possa entrare in contatto anche solo casualmente con la vittima».
Quali sono stati i problemi di regia?
«La sfida è stata creare immagini di gesti e oggetti che portassero con sé il significato dei più stati emotivi. Volevamo raccontare il doloroso e coraggioso processo di rinascita che avviene quando una donna prende il controllo della propria vita e sfugge all’aggressore. Abbiamo registrato delle conversazioni audio con le donne, camuffando le loro voci. Prima c’è stato l’incontro, per cercare di guadagnare la loro fiducia, e solo alla fine è avvenuta la registrazione. Per le immagini abbiamo sopperito alla loro mancanza con soluzioni alternative, inventate di volta in volta per non rendere riconoscibili le persone. Anche la voce narrante non combacia mai con le vere persone, comunque riprese di spalle. Per mescolare le carte abbiamo fatto anche ricorso a comparse, e pure le operatrici sono state rese non riconoscibili».
Liguori, affrontando una materia viva e persone reali, da sceneggiatrice che approccio ha avuto? Come ha gestito il lavoro?
«L’approccio è stato la scrittura stessa, da parte mia e delle donne. Al primo incontro abbiamo detto che volevamo raccontare le loro storie, loro si sono prese del tempo per pensarci e solo quando le operatrici ci hanno detto che volevano collaborare siamo tornati. A volte abbiamo aspettato anche un mese e mezzo la risposta, ma l’attesa è stata la chiave. Avevano scritto le loro storie, nella lingua di ognuna. Attraverso la scrittura condivisa abbiamo parlato della Casa, degli oggetti del rifugio. Queste persone riescono a portare via poche cose e ciò che portano è significativo, una foto, un peluche. Ci siamo trovate intorno a un tavolo a scrivere, utilizzando le parole scritte da ognuna. La scrittura è stato l’approccio di tutte, femminile, solo noi donne a raccontarci. Da loro un atto di generosità, perché non è semplice ripercorrere la sofferenza, ma quelle che hanno voluto starci al fianco nel progetto lo hanno fatto perché volevano far arrivare al maggior numero possibile di donne il messaggio che una vita libera dalla violenza è possibile, che esistono luoghi protetti, loro non sapevano nemmeno cosa fosse un rifugio. E con questo stesso spirito presentiamo il film».