Esposito: nella mia Teramo guardando il polittico capii che il mio destino era l’arte
L’artista internazionale in città con la mostra “Lvx illvminat lvcem” «Ho dato sempre importanza alla luce come elemento spirituale»
TERAMO. «Ero un ragazzino quando, guardando nel duomo di Teramo il polittico di Jacobello del Fiore, ho avuto un’illuminazione e ho deciso che avrei fatto l’artista. Ho iniziato prestissimo a dipingere e oggi è un’emozione incredibile che una mia opera sia esposta nella cattedrale di fronte a quel capolavoro». Diego Esposito, artista teramano di fama internazionale, protagonista dell’arte contemporanea, 84 anni e aria da eterno ragazzo sorridente, è tornato nella città natale con la grande mostra diffusa “Lvx illvminat lvcem”, organizzata da Rotary Club Teramo Est e Galleria Allegra Ravizza di Lugano, curatori Marco Meneguzzo e Aldo Iori, inaugurata il 29 giugno e in chiusura il 10 settembre. Domani alle 18 a L’Arca, sede della sezione pittorica, presentazione del catalogo (Silvana). Nella cattedrale di Santa Maria Assunta, nella cappella del Sacro Cuore che ospita il grandioso polittico “Incoronazione della Vergine” (1414-17) del veneziano Jacobello, vi è l’opera di Esposito che dà il titolo alla mostra, lo splendente pezzo in ceramica e oro posto su un panno di lino che richiama per metonimia il corpo di Cristo, alludendo alla Sindone.
Maestro perché il titolo “Lvx illvminat lvcem”, inciso a epigrafe?
Ho dato sempre molta importanza alla luce come elemento spirituale. La luce rende luminosa la luce che emana un corpo, un’opera. Anche la misura dell’opera non è casuale, riprende le dimensioni di una pietra della facciata della cattedrale, monumento che trasmette spiritualità.
Con la mostra è tornato a Teramo. Com’è stata la sua infanzia?
È stata molto felice, con belle persone, begli amici, il filosofo Pietro Montani, il regista Gianfranco Fiore Donati, che non c’è più. Sono cresciuto nel quartiere San Berardo. Da ragazzini si giocava a calcio alla Gammarana, facevamo lunghe partite. Alla fine tornavano a casa e io mi mettevo a dipingere, tanti acquerelli. Uno dei primi soggetti una collina vicino San Nicolò che mi ricordava il monte Sainte-Victoire di Cézanne. A casa ero tra le donne. Mia madre Antonietta era una ricamatrice bravissima, l’intera casa era ricoperta di fogli coi disegni preparatori. È stata una grande ispirazione, come la nonna paterna Maria Elena, ostetrica nonché cuoca per passione ai matrimoni nel suo paese, Sant’Atto. Mi ha comunicato l’amore per il buon cibo. Poi la sete di conoscenza mi ha condotto lontano, ma qui sono state fonte di insegnamento straordinario le chiese.
Oltre alle radici per lei il viaggio è stato importante. Studi d’arte a Roma e Napoli,4 anni a New York, poi ha sempre vissuto tra Venezia e Milano, dove ha insegnato un trentennio a Brera, e mostre e docenze nel mondo. Si riconosce nella definizione di artista glocal del co-curatore Meneguzzo?
Sì. Il viaggio è elemento formativo importante, è fondamentale entrare in contatto con altri popoli e culture, non basta leggere. Ovunque devi partire dal basso, dalle cose elementari e giornaliere. E poi fai incontri importantissimi. Quando insegnavo all’università di San Diego mi ritrovavo a mensa con 8 Nobel, fisici e matematici che parlavano con naturalezza e semplicità di grandi temi. Ma ciò che apprendi nelle esperienze e nel viaggio non devi tenerlo per te ma trasmetterlo. L’artista è untrasmettitore, comunica ciò che già esiste. L’opera è la mimesi di un paradigma invisibile.
Nella sezione della mostra nella Delfico sono esposti con bozzetti e acquerelli i taccuini. Fissa su carta tutto?
I taccuini sono importantissimi, ne ho circa 250, tutti numerati, vi è tutta la mia vita, il mio pensiero. Nell’ultimo c’è l’intera mostra di Teramo, i disegni con la pianta dello spazio a L’Arca, che ho concepito come spartito musicale. Vi sono appunti di viaggio, riflessioni, progetti, la colazione, sono anche diari.
Come definirebbe la sua arte? E in quale Paese l’ha sentita più compresa?
Un’arte che rispetta la realtà interiore. Il problema non è guardare ma vedere, primo concetto insegnato ai miei allievi. La mia testa è un’enciclopedia dell’arte, nulla nasce dal nulla. Minimale ed essenziale, la mia arte è molto apprezzata in Giappone, lì non amano il superfluo, si guarda all'essenza. La ritualistica cultura giapponese, in cui nulla è casuale, mi ha segnato in modo positivo.
Perché l’arte contemporanea divide, crea tifosi e avversari scatenando in questi irritazione? Come nelle due edizioni di Exempla a Teramo, in cui nel 2002 espose anche lei.
L’arte contemporanea tocca nervi scoperti laddove non c’è spessore culturale ma solo astio. Per Exempla portai a Teramo Bruno Corà, che costruì un percorso espositivo divulgativo dal primo Novecento al Duemila. Quella mostra voleva aprire la città verso il contemporaneo e proiettarla in una dimensione nazionale. Ma se c’è un atteggiamento di chiusura totale non si crea dialogo. Io invece sono “un prete dell’arte”, voglio divulgare la mia religione.
Maestro perché il titolo “Lvx illvminat lvcem”, inciso a epigrafe?
Ho dato sempre molta importanza alla luce come elemento spirituale. La luce rende luminosa la luce che emana un corpo, un’opera. Anche la misura dell’opera non è casuale, riprende le dimensioni di una pietra della facciata della cattedrale, monumento che trasmette spiritualità.
Con la mostra è tornato a Teramo. Com’è stata la sua infanzia?
È stata molto felice, con belle persone, begli amici, il filosofo Pietro Montani, il regista Gianfranco Fiore Donati, che non c’è più. Sono cresciuto nel quartiere San Berardo. Da ragazzini si giocava a calcio alla Gammarana, facevamo lunghe partite. Alla fine tornavano a casa e io mi mettevo a dipingere, tanti acquerelli. Uno dei primi soggetti una collina vicino San Nicolò che mi ricordava il monte Sainte-Victoire di Cézanne. A casa ero tra le donne. Mia madre Antonietta era una ricamatrice bravissima, l’intera casa era ricoperta di fogli coi disegni preparatori. È stata una grande ispirazione, come la nonna paterna Maria Elena, ostetrica nonché cuoca per passione ai matrimoni nel suo paese, Sant’Atto. Mi ha comunicato l’amore per il buon cibo. Poi la sete di conoscenza mi ha condotto lontano, ma qui sono state fonte di insegnamento straordinario le chiese.
Oltre alle radici per lei il viaggio è stato importante. Studi d’arte a Roma e Napoli,4 anni a New York, poi ha sempre vissuto tra Venezia e Milano, dove ha insegnato un trentennio a Brera, e mostre e docenze nel mondo. Si riconosce nella definizione di artista glocal del co-curatore Meneguzzo?
Sì. Il viaggio è elemento formativo importante, è fondamentale entrare in contatto con altri popoli e culture, non basta leggere. Ovunque devi partire dal basso, dalle cose elementari e giornaliere. E poi fai incontri importantissimi. Quando insegnavo all’università di San Diego mi ritrovavo a mensa con 8 Nobel, fisici e matematici che parlavano con naturalezza e semplicità di grandi temi. Ma ciò che apprendi nelle esperienze e nel viaggio non devi tenerlo per te ma trasmetterlo. L’artista è untrasmettitore, comunica ciò che già esiste. L’opera è la mimesi di un paradigma invisibile.
Nella sezione della mostra nella Delfico sono esposti con bozzetti e acquerelli i taccuini. Fissa su carta tutto?
I taccuini sono importantissimi, ne ho circa 250, tutti numerati, vi è tutta la mia vita, il mio pensiero. Nell’ultimo c’è l’intera mostra di Teramo, i disegni con la pianta dello spazio a L’Arca, che ho concepito come spartito musicale. Vi sono appunti di viaggio, riflessioni, progetti, la colazione, sono anche diari.
Come definirebbe la sua arte? E in quale Paese l’ha sentita più compresa?
Un’arte che rispetta la realtà interiore. Il problema non è guardare ma vedere, primo concetto insegnato ai miei allievi. La mia testa è un’enciclopedia dell’arte, nulla nasce dal nulla. Minimale ed essenziale, la mia arte è molto apprezzata in Giappone, lì non amano il superfluo, si guarda all'essenza. La ritualistica cultura giapponese, in cui nulla è casuale, mi ha segnato in modo positivo.
Perché l’arte contemporanea divide, crea tifosi e avversari scatenando in questi irritazione? Come nelle due edizioni di Exempla a Teramo, in cui nel 2002 espose anche lei.
L’arte contemporanea tocca nervi scoperti laddove non c’è spessore culturale ma solo astio. Per Exempla portai a Teramo Bruno Corà, che costruì un percorso espositivo divulgativo dal primo Novecento al Duemila. Quella mostra voleva aprire la città verso il contemporaneo e proiettarla in una dimensione nazionale. Ma se c’è un atteggiamento di chiusura totale non si crea dialogo. Io invece sono “un prete dell’arte”, voglio divulgare la mia religione.