Filippo Giardina: combatto il cinismo con il disincanto 

Il veterano della stand-up comedy italiana sarà domani a Pescara con “Cabaret” Un monologo satirico nel segno della “controcultura”, antidoto alla banalità

PESCARA. «Nella comicità oggi c’è la tendenza a essere molto rassicuranti e molto pop oppure a essere cattivi in maniera gratuita. Io combatto il cinismo con il disincanto, che trovo un sentimento molto più umano o più onesto». È uno dei nomi di spicco della stand-up comedy italiana, Filippo Giardina. Il comico e autore romano porterà al Teatro Massimo di Pescara, domani alle 21, Cabaret, il suo undicesimo monologo satirico (organizzazione: Best Eventi). Uno spettacolo che ha già collezionato sold out su sold out, riassunto in una parola: “controcultura”.
«È quello che sento di provare a fare», spiega in vista dell’appuntamento al Teatro Massimo. «Nel momento in cui c’è una polarizzazione abbastanza binaria e statica su ogni argomento, tra chi dice “bianco” e chi dice “nero”, io cerco di andare a pescare qualche colore in più».
Cosa vuol dire fare satira oggi?
«Sicuramente è più difficile rispetto al passato, ma anche più stimolante. Prima un autore satirico aveva davanti il pubblico e quei giornalisti che se ne interessavano; con l’avvento dei social è stata data a chiunque la possibilità di esprimersi. D’altra parte, oggi ci sono temi di cui gli autori satirici del passato, dagli antichi greci fino a neanche troppo tempo fa, non hanno potuto occuparsi, come il tema internet; il che rende tutto più stimolante».
Come si è accostato al mondo della stand-up e cosa ne pensa della situazione attuale?
«Mi sono avvicinato al cabaret più di venti anni fa, ma, visto che era un po’ prigioniero e ostaggio di parrucche, vocine, vocette e luoghi comuni, nel 2009 ho creato il primo progetto di stand-up italiano, Satiriasi. Adesso c’è un po’ di inflazione di comici; un po’ di loro li chiamo “i comici Instagram”: quelli che stanno tutto il giorno a fare reel. Sicuramente, il fatto che si sia diffusa la cultura della stand-up tra i ragazzi ha aperto questo mondo a tante persone che ci provano; purtroppo ci provano pure per poter mettere la propria foto su Instagram e dire “Io faccio il comico!”, più che per una reale curiosità. Quando eravamo in pochi c’era un po’ più di passione, ora è diventata anche una moda; sta succedendo la stessa cosa successa al rap quando ha iniziato ad allargarsi, con la nascita di vari generi: nella stand-up c’è quella più “facilona”, che va un po’ più per la maggiore, ma c’è anche un pubblico attento e appassionato che cerca cose più particolari e ricercate».
Cos’è per lei la comicità? Ha avuto modelli di riferimento?
«La comicità è stato quel meccanismo che ho scoperto un po’ per caso, che ha disinnescato le angosce, l’ansia di vivere, le paranoie. Il pensiero, quando si fa intrusivo, diventa una partita a ping pong con il cervello e la comicità è una cosa che ridimensiona. Vedendo da fuori ciò che ti succede riesci a ridimensionarlo e a riderne. È stata prima di tutto una coccola per me, nella vita mi ha aiutato; e poi, un grande divertimento: adesso ho 50 anni e l’idea che il mio lavoro sia scrivere cose che fanno ridere la gente mi piace molto, è come se ci fosse una parte di me che può rimanere infantile a vita. Un modello, sicuramente, è stato Paolo Villaggio, la sua capacità di dare una chiave di lettura di un mondo, che ha creato con Fantozzi; mi ha fatto ridere tanto e sicuramente mi ha condizionato».
Nel 2021 ha realizzato il podcast “Sesto Potere: indagine sui social network”. Cosa pensa dell’uso che si fa oggi dei social, in particolare di quello che ne fanno i giovanissimi? Pro e contro del mondo social.
«Pro faccio fatica a vederne. Forse solo il fatto che, se nasci in un paesino e prima avevi poca possibilità di contaminarti con le cose che arrivavano dal mondo, può essere stata un’opportunità per scoprire qualcosa. Contro, invece, infiniti, perché alienano le persone; sono uno strumento che porta con sé una negatività che non avevano gli altri strumenti tecnologici. Non si possono utilizzare i social se non male, perché ti sollecitano sempre parti negative del tuo carattere: l’ego, l’approvazione, la ricerca del consenso. Diamo per scontato che sia una cosa normale, ma non è così. Io faccio il comico, pago il prezzo di dover essere giudicato continuamente perché fa parte del mio lavoro, ma non capisco perché uno che fa tutt’altro debba vivere questo senso di giudizio continuo, di competizione, e debba essere sempre sollecitato a esprimere opinioni su qualsiasi cosa. Credo che piano piano le nuove generazioni, che hanno la dipendenza più dura, saranno anche quelle che se ne discosteranno prima. Io sono ottimista, penso che stia iniziando il periodo declinante dei social network. Non credo ci sarà un ulteriore step ancora più tecnologico, già il fallimento del metaverso è evidente. Con la pandemia c’è stato un boost dei social, ma credo che stiamo andando veloci verso una chiusura di una parentesi, che non è stata nemmeno troppo lunga».