Ovidio, il poeta che scandalizzò l’antica Roma

La celebrazione del sesso nell’Ars amatoria gli costò la cacciata dalla capitale dell’Impero

di Nino Motta

Ovidio, di cui Sulmona quest'anno celebra il bimillenario della morte, è uno dei più grandi poeti della letteratura latina e la sua fortuna, attraverso i secoli, fu enorme. La sua fama è legata essenzialmente a due opere: l'"Ars amatoria" e le "Metamorfosi".

L'"Arte di amare", considerata da Concetto Marchesi e Augusto Rostagni il capolavoro di Ovidio, ebbe un successo clamoroso. Con essa Ovidio vuole insegnare agli uomini come conquistare le donne e alle donne come sedurre gli uomini. L'amore di cui il poeta intende essere maestro è esclusivamente l'amore sensuale: «lascivi praeceptor amoris».

Le donne di cui tratta non sono mai le matrone, recanti come distintivo del pudore le bende intorno ai capelli (vittae) e la balza (instita) della stola lunga fino ai piedi. E neppure le meretrici, ma le «libertinae», di cui Roma era piena e che si potevano incontrare dovunque, dai portici al teatro, dal Circo ai convivi.

E' una Roma quella di Ovidio che, dopo la guerra civile che aveva travolto la Repubblica, ha voglia di assaporare i frutti della pace, abbandonandosi al lusso, all'ozio, ai piaceri. Di questo mondo frivolo e libertino, che ha smarrito il ricordo delle antiche virtù, Ovidio è il cantore. Nelle sue elegie, al contrario, ad esempio, di Catullo, l'autentico sentimento d'amore, fonte di ansie e di sofferenze, è assente. Quello che emoziona il poeta è l'avventura.

Nel gioco della seduzione non conta l'amore, ma la simulazione di esso. I destinatari dei suoi precetti dovranno recitare la parte degli innamorati, dovranno promettere, spergiurare e ingannare deliberatamente le donne. «Loro vi ingannano: ripagatele con la stessa moneta» («Fallite fallentes»).

Alle donne raccomanda di approfittare dell'età, che «scivola via e non ne segue una così bella quanto fu bella la precedente». E avverte: «Ci sarà un tempo in cui tu, che ora lasci fuori casa gli amanti, dormirai, fredda e vecchia, nella notte solitaria e non troverai al mattino la soglia cosparsa di rose».

Nell'autunno dell'8 d.C., Ovidio, al culmine del successo, inaspettatamente, per ordine di Augusto, deve lasciare Roma e andare in esilio a Tomi (l'odierna Costanza).

L'editto dell"imperatore parla di «relegatio», che a differenza dell'«exilium» non prevedeva la perdita dei diritti civili e la confisca dei beni. Ufficialmente il provvedimento veniva attribuito a ragioni di pubblica moralità contro il poeta che nelle sue opere, ma soprattutto nell'"Ars amatoria", si era fatto «maestro di turpe adulterio» («obsceni doctor adulterii»). «Augusto», rileva Augusto Rostagni, «non poteva approvare una forma di poesia che così apertamente contravveniva al suo programma di restaurazione morale in materia di famiglia e di matrimonio».

Per attuare tale programma Augusto aveva adottato una serie di leggi. Che però si erano rivelate inefficaci.

A Roma la corruzione dilagava. Non risparmiando neppure la stessa famiglia dell'imperatore.

Sia la figlia che la nipote di Augusto, resesi colpevoli di adulterio, furono allontanate da Roma. Giulia maggiore, nel 2 d.C., fu confinata a Ventotene. La figlia di questa, Giulia minore, a sua volta, fu relegata nell'isola di Tremiti, lo stesso anno in cui veniva esiliato Ovidio.

Se Augusto riteneva Ovidio in qualche modo responsabile della condotta scandalosa delle due Giulie, perché ha aspettato sette anni (l'Ars è dell'I d.C.) prima di allontanare il poeta da Roma?

E' accaduto un fatto specifico inaspettato, che Ovidio definisce un «error», un'imprudenza.

«Due», scrive nei "Tristia", «sono le cause che mi hanno perduto: "un carme e un errore/ e di questo secondo debbo io tacere la cagione"». Il carme, non v'è dubbio, è l'Ars amatoria, sull'inconfessabile «error» la critica moderna si è scervellata, con scarso risultato.

L'interpretazione che più si avvicina alla verità è quella che dà Francesco Della Corte: "L'Ars amatoria" comprendeva anche una «trica», un racconto.

Questa, per tornare alla ribalta, deve essere stata messa in scena e mimata. Non sarebbe avvenuto nulla, se a recitarla fossero stati i mimi. Il fatto grave è che fra gli attori del mimo, d'argomento impudico, c'era una dea, cioè la nipote stessa di Augusto, Iulia minor.

La colpa di Ovidio è dunque simile a quella di Atteone che vide una dea nuda. E che pagò con la vita. La chiave per risolvere l'enigma l'ha fornita lo stesso Ovidio, quando nei "Tristia" scrive: «Sono punito, perché gli occhi, senza volerlo, videro un fatto scandaloso». Una punizione che il poeta ritiene ingiusta.

Così, mentre implora il perdono di Augusto, raccomanda al suo «libro di tenersi lontano dal Palatino».

Teme quel luogo perché da lì venne scagliato il «fulmine» che lo ha schiantato. E ricorda la vicenda di Fetonte. Nelle "Metamorfosi" Fetonte è una «vittima innocente» del fulmine «ingiustamente scagliato» da Giove. E Augusto più volte viene identificato con Giove.

«La ripetuta equiparazione di Augusto a Giove e del suo potere al fulmine», osserva il latinista inglese, Edward Jhon Kenney, «rappresenta più una critica che un omaggio. Ovidio si ritiene vittima della tirannia e dell'ingiustizia.

I “Tristia” sono stati tacciati di servilismo, ma per alcuni aspetti mostrano un Ovidio audace fino alla temerarietà. Nell’“Ars amatoria” Ovidio, a proposito dei poeti, scrive: «Un dio è in noi e ci sono rapporti col cielo/l'ispirazione viene dalle sedi celesti».

Dunque a decidere del suo destino non sarà l'arbitraria sentenza di un monarca, ma il suo genio poetico..

Negli anni dell'esilio, il poeta cerca disperatamente di ottenere una revoca del provvedimento che l'aveva esiliato ai confini del mondo.

Ma sia Augusto sia il suo successore, Tiberio, furono irremovibili. Alla fine cessa di infastidire gli amici e la moglie Fabia con richieste d'aiuto e si rassegna a morire da esule. Consapevole che la sua poesia lo renderà immortale: «E nei millenni, col mio nome - se è veritiera, visione di poeti - io sarò presente».

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