Piccoli bucanieri nell’avventura della Resistenza 

Primo romanzo del giornalista aquilano Dell’Omo «Le fonti? Dall’Isola del tesoro a Tarantino»

L’AQUILA. L’Aquila, autunno 1942. Dieci adolescenti, guidati da un vecchio capitano fissato con il fantasma di Trotsky, mettono insieme una banda partigiana. La chiamano Gordon, in onore dell’eroe del loro fumetto preferito, Flash, che il fascismo aveva censurato nel 1938 temendone la carica libertaria. Dopo mesi di addestramento in montagna, i ragazzi si danno finalmente una missione: rapire Mussolini – tenuto prigioniero sul Gran Sasso, a Campo Imperatore, dopo la caduta del regime, nel luglio 1943 – prima che arrivino a liberarlo i tedeschi. Il piano è semplice: librarsi in volo seguendo le istruzioni di un antico manoscritto. A progettarlo è Pietro Vinci, un timido membro del gruppo, educato nel culto dello zio, Gabriele D’Annunzio (parentela di cui però si vergogna). Sarà sempre Pietro, ormai invecchiato e divenuto, nel frattempo, un generale dei servizi segreti, a raccontare le rocambolesche imprese dei suoi compagni.
Sono i fili che tessono la trama del primo romanzo del giornalista aquilano Marco Dell’Omo, “La banda Gordon”, appena pubblicato dall’editore Nutrimenti. Un libro ambientato durante la Resistenza ma non collocabile nel filone della letteratura sulla Resistenza. Piuttosto, una storia di amicizia, libertà e poesia, che più che ai vari Fenoglio, Calvino e Meneghello, guarda ai romanzi d’avventura di Salgari e Stevenson, all’“Huckleberry Finn” di Mark Twain, fino a Quentin Tarantino e, naturalmente, al mondo dei fumetti.
Dell’Omo, che genesi ha avuto il romanzo?
L’idea è maturata lentamente e in modo un po’ casuale. Avevo in mente la storia di un’amicizia difficile che si svolgeva sulle pareti di una montagna, poi ho deciso di ambientarla negli anni della guerra, da lì ho inserito un evento che ha sempre acceso la mia fantasia, la prigionia di Mussolini al Gran Sasso, quindi mi sono imbattuto nella storia del fumetto di Flash Gordon e della censura subita ad opera del regime.
Leggendo il libro vengono in mente autori come Fenoglio ma soprattutto il Meneghello de “I piccoli maestri” e il Calvino de “I sentieri dei nidi di ragno”. Sono scrittori che sente a lei vicini?
In generale dietro la Banda Gordon ci sono rimandi più o meno consapevoli ai grandi libri di avventura come L’isola del tesoro o Hukleberry Finn, ma uscendo dall’ambito letterario tra le fonti di ispirazione devo anche menzionare Quentin Tarantino e la sua idea di giocare con la grande storia nel film Bastardi senza gloria. Tra quei giganti della letteratura italiana, Calvino è quello che sento più vicino, soprattutto per l’intuizione, che lui maturò giovanissimo, di raccontare la Resistenza scegliendo un punto di vista quasi fiabesco, mettendo cioè in scena una banda partigiana che sembra composta da bucanieri sgangherati, con tanto di giovane mozzo e cuoco di bordo. Cambiare punto di vista, spiazzare la pigrizia, togliere pesantezza al linguaggio sono gli insegnamenti che ho cercato di assimilare, non so con quanto successo.
Il libro contiene molti riferimenti alla geografia dell'Aquila, tranne che per le parti ambientate in montagna, che si svolgono invece in luoghi immaginari. Perché questa scelta?
Ho cercato di disegnare una città insolitamente scura, notturna e silenziosa, che riflettesse l’angoscia di quel periodo. Le pareti del Gran Sasso sono quelle reali. Ho invece creato dal nulla un vallone impervio, il vallone dell’Eremita e il vicino paese di Castellaccio. La scelta è nata perché avevo bisogno di un luogo di difficile accesso e con una grande parete di roccia per far addestrare la Banda Gordon e nei dintorni dell’Aquila non c’è nulla di simile. Poi, scrivendo ho capito che questa scelta rafforzava il carattere fantastico della storia e le ho dato ancora più corpo.
La montagna, oltre a essere un protagonista aggiunto del romanzo, è una sua grande passione. Al Gran Sasso lei ha dedicato anche un libro. Vuole parlarcene?
Forse dietro la mia passione per il Gran Sasso c’è l’idealizzazione di un paradiso perduto – la mia famiglia si è trasferita a Roma che io ero un bambino – che mi ha spinto a battere ogni sentiero e ogni parete delle nostre catene montuose alla ricerca di una sorta di spirito originario con cui ricongiungermi. La montagna abruzzese è unica, non ha paragoni e non deve avere complessi di inferiorità. Il Gran Sasso non è “come le Dolomiti”, Capo Imperatore non è “come il Tibet”. È una montagna inaspettata, arcaica, che profuma di terra e di mare. In questo libro la montagna ha anche un altro valore: è un altrove, un luogo dove non valgono più le liturgie del regime e l’ideologia del quieto vivere, e dunque per i ragazzi della banda prima è una via di fuga, poi diventa una palestra di libertà e responsabilità, dove si impara il valore della cordata, cioè dell’azione collettiva.
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