Walter Veltroni: quando esplodono rabbia e violenza 

Nel libro “La condanna” il linciaggio nel 1944 di Donato Carretta L’autore: «Anche oggi la giustizia sommaria è troppo frequentata»

PESCARA. Lu truvà sta vicine a lu cercà. È il monito che una ironica, anonima mano ha attaccato a una delle pareti nella redazione del quotidiano il Centro. La scritta descrive, in grandissima sintesi, ciò che deve fare un giornalista. E proprio un giornalista di belle speranze è il protagonista di La condanna (Rizzoli, pp 224), il bel libro in cui Walter Veltroni racconta, in bilico tra passato e presente, cronaca e fantasia, il violento e tragico episodio in cui, nella Roma appena liberata dall’occupazione nazifascista, il popolo si trasforma in cieco giustiziere per massacrare e linciare Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli.
Il trovare sta vicino al cercare, appunto. Ed è quello che fa Giovanni, giovane e ancora pieno di ideali, nel ricostruire puntigliosamente e faticosamente la vicenda, evitando il facile appiattimento di Google, scandagliando biblioteche e archivi di Stato, vecchi filmati e documenti perduti, in un lavoro certosino che profuma di passato. Quello che fa, allargando lo sguardo, lo stesso Veltroni, in una storia che è specchio riflettente di tante miserie dei nostri tempi.
La vicenda narrata non è tra le più note. È il settembre 1944, quella mattina si apriva il processo a carico di Pietro Caruso, ex questore di Roma accusato, tra le altre cose, di aver selezionato le vittime destinate alle Fosse Ardeatine. Il fascismo si trova imputato per la prima volta dopo vent’anni e una folla già rabbiosa e affamata di vendetta, più che di giustizia, si raduna davanti al Palazzaccio, il tribunale, prima di irrompervi alla ricerca di Caruso. Non lo trovano, ma una donna addita Donato Carretta, in aula per testimoniare proprio contro Caruso. Sempre più esaltata, resa sanguinaria dalle grida e dalle incitazioni, la folla inferocita trascina l’uomo per strada, dove viene pestato a sangue prima di essere gettato nel Tevere, finito a colpi di remo addirittura da inconsapevoli bagnanti, e poi appeso a testa in giù alle sbarre di una finestra del carcere. Una scena che anticipa di pochi mesi quella di Piazzale Loreto, dove a essere linciato sarà il Duce.
A nulla conta che proprio Carretta aveva prestato aiuto, facendoli fuggire da Regina Coeli, due prigionieri importanti, Pertini e Saragat. In mezzo a questa follia, solo due persone cercano di salvarlo, a rischio della loro stessa vita. Il carabiniere Giambattista Vescovo e Angelo Salvatori, autista, a cui la folla chiede di “fare salsicce” di Carretta con le ruote del tram che sta conducendo: rifiuta e si salva solo brandendo la tessera del Pci.
Testimone d’eccezione della scena, dentro e fuori dall’aula di giustizia, è il regista Luchino Visconti, che riprende i fatti perché incaricato di seguire il processo dagli Alleati.
Quell’omicidio consumato lì dove avrebbe dovuto regnare la giustizia, rielaborato dagli occhi del giovane giornalista Giovanni offre molti spunti. A cominciare dall’impoverimento dell’informazione. La redazione triste e sopraffatta di Veltroni è molto, troppo simile, a tante redazioni del nostro Paese, svuotate dalle rivoluzioni digitali e minacciate dall’indifferenza di una società anestetizzata dai social.
Poi l’impossibilità di tracciare una riga netta tra i “giusti” e i “colpevoli”. Donato Carretta, da direttore del carcere, inizialmente era perfettamente inserito nelle dinamiche fasciste, da cui si era via via andato discostando verso la fine del regime. Lo stesso Visconti, nel montare il suo filmato, non è estraneo a una certa “manipolazione”, quando esclude le più crude scene di linciaggio e così facendo modifica il giudizio dello spettatore.
E ancora la rabbia, la violenza collettiva, che soprattutto sui social esplode oggi come allora, e ancora come allora non guarda in faccia a nessuno, quando trova un conveniente bersaglio, un capro espiatorio su cui far abbattere i propri metafisici pugni. Come spiega Veltroni, «La condanna esce in un momento in cui l’odio e la giustizia sommaria tornano purtroppo a essere frequentati. Come si riesce a evitare, con la ragione, che l’odio tocchi chi è diverso da me? Bisogna ribadire sempre che oggi come ieri la democrazia è fatta per assicurare alla folla le regole della convivenza civile, che servono a legittimare il diverso modo di credere, di pensare, di amare. Un mondo arcobaleno, e non una camicia di un solo colore».