APPALTI E TERREMOTOL'Aquila, nella zona rossa la rabbia di chi non rideva

In trecento si sono ritrovati domenica 14 febbraio in piazza Duomo, per manifestare il proprio sdegno davanti alle risate degli imprenditori la notte del 6 aprile, con cartelli con scritte "Io alle 3,32 non ridevo'", e "Riprendiamoci la nostra città". Poi hanno superato le barricate delle forze dell'ordine ai Quattro cantoni e hanno raggiunto piazza Palazzo, considerata inaccessibile

L’AQUILA. «L’Aquila è nostra. Adesso basta». Le transenne dei Quattro cantoni vanno giù come i mattoncini del Domino. Gli aquilani entrano, testa e braccia alte, nella zona rossa. A San Valentino, un gruppone di 300 innamorati di questa città se la riprendono. A modo loro. Anche i militari fanno un passo indietro. Ma quale pranzo domenicale. Alle 12,45 solo lacrime e rabbia sulle macerie intatte.

«A PIAZZA PALAZZO
». Il pallido sole su piazza Duomo già scalda Zorro e le altre mascherine. Una lunga fila di auto sale dal tribunale alla villa. Un percorso a passo d’uomo, in mezzo a una gabbia di transenne. Qualcuno ha tolto da via XX Settembre lo striscione «Ridi ’sto par di palle». Davanti alla casa dello studente ci sono i volti degli otto innocenti. Loro come gli altri 300. Tanti fiori e lumini davanti al monumento. E i vigili del fuoco, più avanti, potano un grande ippocastano. Alla villa comunale, le bottegucce di legno dei commercianti sono aperte. Davanti al Grand hotel, chiuso, c’è la sorella di Maurizio Cora, l’avvocato che ha perso moglie e figlie nella notte del sisma.

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«Noi non ridevamo», è questo lo slogan che sta scritto sulle magliette e sui cartelloni preparati all’ultimo momento, mentre era ancora fortissimo lo sdegno per le «infami intercettazioni degli sciacalli». La salutano i medici Antonella Santilli, vicepresidente del consiglio comunale, e Antonello Marano. Più avanti, in piazza, l’ex rugbista Carlo Caione esce dal bar Nurzia con un pacchetto verde. Parte un piccolo corteo verso piazza Palazzo. Una fila che diventa sempre più lunga. «Vogliamo rientrare nelle nostre case», gridano gli aquilani esasperati da dieci mesi di esilio forzato tenda-roulotte-albergo-casette. Percorso non concluso ancora per molti. Per troppi aquilani. Le colonne dei portici sono fasciate di giallo. Tubi e puntelli dappertutto. Ma il giro dei trecento per le vie della città ferita si ferma subito. Ai Quattro cantoni. La camionetta dei militari sta lì a ricordare che da qui non si può passare. C’è la polizia. Ci sono i vigili del fuoco. E solo a loro va il grazie di questa gente esasperata che, nella notte del terremoto, se li è visti sbucare dalla polvere. Mani tese, braccia forti. Per chi ce l’ha fatta e per chi no. Inizia una trattativa. «Da qui non si passa», dicono i poliziotti.

«CHI SÌ E CHI NO». «Ma come, per i potenti del mondo sì e per noi che ci teniamo le case no?», chiede un anziano col bastone che si è trascinato fino a qui. Trattativa difficile, questa. Si capisce subito che i margini sono distanti. Qualcuno prova a suggerire: «Entra uno solo, simbolicamente». Bordate di fischi. I militari si guardano, forse preoccupati. Allora, senza nemmeno dirlo, partono tutti. Senza segnale. Le transenne ballano. «Aprite, aprite», ordina infine la polizia. Poi quei separé cadono come birilli e la gente marcia versopiazza Palazzo, sotto la casa di tutti, il Comune. È qui che la rabbia si scioglie in lacrime. Giovani e anziani piangono a vedere quei mucchi di macerie ancora intatti. Nessuno li ha toccati. Eppure qui c’era stato persino un consiglio comunale. «E le tv avevano fatto passare il messaggio che era tutto risolto», gridano adesso i manifestanti che non ce la fanno più. Poi una decina di persone si arrampicano sulle macerie.

«NOI NON RIDEVAMO
». Daniele Gioia è uno di quelli che non ridevano la notte del sisma. «Non ho avuto danni, ma a sentire quelle parole indegne non ho avuto un attimo di esitazione. Dovevo esserci, per una testimonianza. Non c’è nulla da ridere ed è ora di dire basta a chi racconta un’altra verità». Antonio Di Giandomenico, qui con la moglie Rita Ferri, arringa la folla in dialetto: «L’Aquila sta come stea». Poi, di fronte a quello sfacelo, parte un invito: «Ognuno di noi prenda una pietra. Poi torneremo con le carriole. Le macerie, da qui, le toglieremo noi». E ciascuno si mette in fila. A chi tocca un pezzo di tegola rossa, a chi un frammento di un pavimento di granito. A chi un sasso. A chi una pietra bianca levigata. Pezzi da rimettere insieme. Mimmo D’Orazio ha un berretto rosso e due cartelli addosso: «Io alle 3,32 non ridevo» e «Riaprire la città». Nelle mani ha una pietra. Ma non vuole lapidare nessuno. «È un gesto simbolico. Una pietra a testa, e la città si libera. Bertolaso? Gli riconosco delle capacità fuori dal comune, ma da qui a santificarlo ce ne passa. Sono arrabbiato per quello che non ha fatto prima del terremoto. Poi, a catastrofe avvenuta, abbiamo dovuto assistere a una cricca che si è spartita la torta. Le risate? Di due animali, con tutto il rispetto. A noi aquilani tocca vigilare, marcare stretto il potere».

ANNA, IL FANTASMA
. Da sotto un lenzuolo bianco con la scritta «L’Aquila» sbuca fuori Anna Barile, che urla tutta la sua rabbia. «L’Aquila è nostra, non è un set. Ci dicevano non c’è pericolo e invece chi doveva proteggerci non ci ha difeso. Quella notte nessuno rideva, nessuno. Ho messo il lenzuolo bianco per testimoniare che la nostra è una città fantasma: tutto ovattato, tutto troppo silenzioso».

«IO STO CON GIUSTINO»
. Stefano Cencioni è un ragazzone alto che si mette sul mucchio più grande. La torre di Palazzo gli fa da sfondo. Ha il megafono ma non gli serve. Grida più forte di tutti: «Qui non rideva nessuno. C’erano i nostri figli, i nostri genitori, gli studenti. Ognuno di noi ha la sua storia. E l’Italia lo sappia». Poi, sceso dal mucchio, aggiunge: «La mia non è una posizione contro la Protezione civile, che tanto ha dato a questa città. Ho conosciuto volontari che hanno lasciato le loro famiglie e attività anche in Sicilia e in Valle d’Aosta per venire ad aiutarci. Mi sento vicino a Giustino Parisse, la persona con la più alta dignità, per il suo silenzio interiore di uomo, padre e marito».

«700 ANNI DI STORIA
». «Non possono portarci via 700 anni di storia», dice Giusi Pitari, docente universitaria, che si mette alla testa del gruppo. «È ora di riprenderci le nostre vie, le nostre case, siamo indignati. Anche per l’assenza di rappresentanti istituzionali». Il sindaco Cialente spiegherà, due ore dopo: «Ero impossibilitato. Sto facendo una giunta. Devo mettere in casa 1300 persone. Non siamo noi i cattivi che non riapriamo la città. Ci sono piazze con palazzi che rischiano di crollare. La sicurezza prima di tutto». La presidente della Provincia Stefania Pezzopane, ugualmente assente, commenta così: «Ero impegnata fuori, ho voluto rispettare un’iniziativa nata dalla gente. La loro è una rivolta morale assolutamente condivisibile». In compenso c’è il sindaco di San Demetrio ne’ Vestini Silvano Cappelli «ma a titolo personale», precisa. «L’Aquila non deve morire». Bruna Bontempo aggiunge: «Ricostruzione subito». Non mancano, tra chi scende in piazza, le critiche al capo della Protezione civile, esplicitate da quei comitati vicini al movimento «3e32» che fin dai primi momenti hanno animato le proteste per una gestione della ricostruzione definita, come dice lo striscione lasciato in piazza Duomo, «solo apparenza, poca sostanza».

«NOI OSPITI». Eugenio Carlomagno («L’Aquila, un centro storico da salvare») è infuriato. «Siamo abusivi, ospiti in casa nostra. Dal 6 aprile, qui, non s’è mosso nulla. Senza linee guida i centri storici non li ricostruiremo più. Dopo un anno la gente rischia di perdere i soldi per rifare case e palazzi. Per non parlare, poi, dei costosi puntellamenti. Settecentomila euro per proteggere un palazzo che sarà abbattuto. Chi paga? E chi controlla? Servono regole certe e amministratori capaci». La folla sciama lentamente, in maniera del tutto pacifica e senza il minimo incidente. Dietro, la transenna torna a proteggere pure il mucchione di rifiuti di fronte a «Mondo antico». Contentissimi i più piccoli del gruppo, Ettore e Riccardo: «Abbiamo visto casa nostra, in via Campo di Fossa, senza accompagnatori».

LITTIZZETTO.
A sera, poi, bordate agli sciacalli in diretta tv da una che non le manda certo a dire. Luciana Littizzetto, al «Che tempo che fa» di Fabio Fazio, augura, ai due intercettati ridanciani, di diventare dei «Re Mida» al contrario: «Che tutto quello che toccate possa diventare merda».