Campotosto, sulle macerie ora crescono piante e fiori 

Sulle rovine del borgo devastato spuntano i cartelli di un orto botanico fai-da-te La tessitrice Perilli e la botanica Tinti classificano le specie nate spontaneamente

CAMPOTOSTO. Le macerie di Campotosto diventano un orto botanico.
L’idea è stata di Assunta Perilli, titolare della “Fonte della tessitura”. La sua casetta-laboratorio si trova nel cuore di Campotosto che oggi è una landa desolata. I terremoti del 2009, del 2016 e del 2017, hanno fatto danni gravissimi a tutto il centro storico che è stato demolito (buttati giù sia la sede del municipio che l’edificio della chiesa parrocchiale) e ora è in attesa di ricostruzione.
«Qualche giorno fa», racconta Assunta Perilli, «sono arrivati in paese due ragazzi incuriositi dalla varietà di erbe e piante della nostra zona e così siamo andati a fare un giro e lì mi è venuto lo spunto per realizzare, in quel che resta del nostro borgo, una sorta di orto botanico. Grazie alla mia amica botanica Daniela Tinti del Parco nazionale Gran Sasso-Monti della Laga abbiamo cominciato a individuare le erbe e le piante, a catalogarle e a scriverne il nome su dei cartelli».
In questi anni, i cittadini terremotati, oltre a protestare per le lungaggini della ricostruzione, hanno spesso denunciato la presenza di erbacce e arbusti cresciuti sulle macerie, segno di abbandono e degrado.
Anche adesso, a più di 11 anni dal sisma del 2009, basta andare nelle frazioni dell’Aquila per vedere, nei punti in cui i cantieri sono ancora di là da venire, vere e proprie boscaglie dove regnano soprattutto pioppi e acacie. Ma se si osservano i dettagli si scopre un “mondo” che, a chi guarda distrattamente, sfugge: la natura si riprende i suoi spazi e lo fa, in certi casi, con una vigoria e una bellezza inaspettata.
A Campotosto l’elenco delle piante (in gran parte utili all’uomo) è corposo: c’è l’Hordeum murinum (orzo selvatico), la Daucus carota (carota selvatica), l’Anthirrhinum majus (bocca di leone), la Reseda lutea (reseda), la Lactuca serriola (lattuga selvatica), la Plantago lanceolata (piantaggine).
Assunta Perilli, a fianco alla sua casetta, ha provato anche a piantare il lino che è spuntato senza problemi pur in un ambiente apparentemente ostile. Da diversi anni a Campotosto, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, viene organizzata la festa del lino (che quest’anno è saltata a causa dell’emergenza sanitaria). Una parte della festa è stata sempre dedicata alla “passeggiata botanica” intorno al lago con i ricercatori del Centro ricerche floristiche dell’Appennino. L’obiettivo è di andare alla scoperta dei segreti di uno dei luoghi botanicamente più interessanti del Parco nazionale Gran Sasso-Monti della Laga: ci sono piante di interesse etnobotanico, come quelle tintòrie e specie rarissime e a rischio di estinzione. «Piccoli lembi dell’antica torbiera», secondo i ricercatori, «ancora sopravvivono lungo le rive del lago, originando ambienti delicatissimi che ospitano specie di altissimo interesse».
Chi arriva oggi a Campotosto, in attesa che le case siano ricostruite, può dunque vedere – oltre al lago e agli splendidi paesaggi – anche il piccolo orto botanico e può chiedere “lumi” ad Assunta Perilli che da 20 anni si occupa di tessitura a mano grazie al ritrovamento di un vecchio telaio appartenuto a sua nonna.
Purtroppo, tra le piante nate sulle macerie ce n’è una che non solo non è utile all’uomo, ma è anche pericolosa e il Parco da anni sta conducendo una battaglia per estirparla. Si tratta del Senecio inaequidens (detto anche Senecione sudafricano) che è considerato altamente invasivo e tossico. Sarebbe giunto in Europa a fine Ottocento attraverso il commercio della lana.
Il Parco ha avviato campagne di contenimento, attraverso l’estirpazione manuale, che hanno interessato centinaia di ettari di terreno. Sono state fatte anche verifiche sperimentali per valutare l’impatto del Senecione sull’attività apiaria e su quella zootecnica.
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