«Crolli, chiederemo di celebrare i processi in un’altra sede»

Intervista all’avvocato Attilio Cecchini «Per la difesa all’Aquila non c’è un clima sereno»

L’AQUILA.Attilio Cecchini è nato all’Aquila nel 1925. Ha iniziato l’attività di avvocato nella sua città e poi nel 1950 è andato in Venezuela con l’amico Gaetano Bafile. Insieme hanno fondato la Voce d’Italia, battagliero giornale rivolto agli emigrati italiani che prima uscì come settimanale e poi diventò un quotidiano che ancora oggi viene pubblicato ed è guidato dai figli di Gaetano Bafile scomparso poco più di un anno fa. Tornato in Italia nel 1960 ha continuato l’attività di avvocato occupandosi dei più importanti processi degli ultimi decenni fra cui quello in cui fu coinvolta la giunta regionale nel 1992 e il processo Perruzza.

L’AQUILA. Attilio Cecchini, avvocato, giornalista, e autore fra l’altro di una indimenticata guida alla città scritta insieme a Luigi Lopez, oggi ha 85 anni. Questa mattina come fa da decenni sarà in un’aula di tribunale a sostenere davanti a un giudice la difesa di una persona finita nelle maglie della giustizia.
Cecchini è uomo che da sempre dice quel che pensa (anche a rischio della vita come gli accadde in Venezuela negli anni Cinquanta quando con i suoi scritti su «La Voce d’Italia» e sui giornali italiani di cui era corrispondente combatteva e denunciava i soprusi del regime venezuelano) pur consapevole che questo potrà farlo diventare bersaglio di critiche e suscitare polemiche.
Nell’intervista che segue ci sono alcuni passaggi, su come ricostruire e sulle indagini giudiziarie relative ai crolli, che sicuramente faranno discutere.

Avvocato Cecchini, cosa ricorda della notte del sei aprile, lei dove era al momento della scossa?
«Io ero a casa in via Cascina, nel palazzo che fa angolo con via Roma a fianco a Palazzo Carli. Ero tranquillo. Non ho sentito né la scossa intorno a mezzanotte, né quella dell’una. Anzi mia figlia, dopo la prima scossa mi ha raccontato di essere entrata in camera mia e ha visto che dormivo profondamente. Alle 3.32 non sono stato svegliato dalla scossa ma da un sibilo fortissimo. Ho avuto la prontezza di balzare dal letto e uscire dalla porta a due metri da me. Un attimo dopo è caduto il soffitto e più tardi è stato trovato, sul mio letto, senza vita, un caro amico che abitava al piano di sopra. Anche nella camera di mia figlia era tutto crollato, l’ho chiamata e lei mi ha risposto. Una trave l’ha protetta per tre ore fino all’arrivo dei vigili del fuoco che l’hanno tirata fuori. Adesso abito a Pettino in una casa che pure ha subìto danni ma che sono riuscito a ristrutturare, a mie spese, in tempi brevi e dove ho allestito il mio studio e ho ripreso a lavorare».

Nella sua lunga esperienza di avvocato, ma anche di persona sempre attenta alle vicende cittadine, ricorda di essersi occupato qualche volta di problemi inerenti il rischio sismico con riferimento al centro storico dell’Aquila?
«No mai. In qualche piccolo processo in pretura a volte sono state affrontate questioni relative ad abusi edilizi con ricadute anche sulle normative antisismiche ma mai nulla di significativo. E’ come se il problema prima del sei aprile non ci fosse».

Lei, in un bel saggio, pubblicato all’inizio del libro «Il nostro terremoto» di Angelo De Nicola scrive una frase - che mi ha colpito molto - a metà fra storia e attualità. Lei dice: le dimissioni da Papa di Celestino V sono il gesto più aquilano della storia. Può dare una chiave di lettura di questa sua affermazione?
«Innanzitutto il gesto di Celestino non lo considero un atto di viltà. Anzi il suo accettare la nomina - in un momento turbolento della storia in cui si contrapponevano la chiesa della carne e la chiesa spirituale - fu un atto di grande coraggio. Quando poi si vide tirato per la giacca da un lato da Carlo d’Angiò e dall’altro della Curia romana lasciò per non essere coinvolto in quei giochi. L’Aquilanità è allo stesso tempo fierezza e insolenza. Celestino - come scrivo in quel saggio - perse la pazienza per gli intrighi della Curia e mandò tutti al diavolo tornandosene a fare l’eremita. Fu un gesto di grandissima indipendenza morale. L’Aquilanità dunque può essere una grande forza ma anche una grande debolezza a seconda che prevalga la fierezza o l’insolenza e quindi l’aquilanità aurea o l’aquilanità di latta».

Parliamo della ricostruzione della città. Lei che idea si è fatta sui tempi e le modalità?
«Inutile farci illusioni, il cammino sarà lungo e tortuoso e non dovrà prendere scorciatoie imposte da impazienza o pregiudizi. Il centro storico, parlo di quello dentro le mura medioevali, è il nostro orgoglio e deve tornare a sprigionare tutto il suo fascino segreto. La città dovrà essere un’Acropoli che domina le due valli, quella verso il castello Ocre e quella verso la storica Amiternum, due aree dove di fatto è già avvenuta l’espansione della città. La città deve aprirsi, deve «scendere» verso queste due valli, non deve rimanere arroccata. Sono finiti i tempi in cui anche la zona della villa comunale, come mi raccontava anni fa una signora aquilana, era considerata dagli aquilani la campagna. Purtroppo tracce di quella mentalità sono rimaste, sento per esempio parlare di nostalgia dello “struscio” sotto i portici, bisogna capire che i tempi sono cambiati. Le linee guida del recupero devono tracciarle i competenti, il salvabile non può essere selezionato dal capriccio del singolo ma deve seguire i parametri della scienza. L’emergenza collettiva trascende dagli interessi particolari e si deve porre come la condizione base di ogni possibile progettualità. Poi si dovrà passare alla fase esecutiva che trasformi la città in un cantiere globale all’interno di una griglia che marcherà i cantieri di ogni singolo comparto. Sui tempi non sono ottimista. Io credo che per una città risanata da consegnare ai nostri figli e ai figli dei nostri figli ci vorrà un ventennio. A noi, forse, non resta che sognare».

Si parla molto nei dibattiti di questi giorni di una ricostruzione che deve partire dal basso, dal coinvolgimento cioè dei cittadini. Lei cosa ne pensa?
«Su questo voglio essere chiaro e molto franco. Io non credo allo slogan della ricostruzione partecipata dal basso. La demagogia è la peggiore nemica dello sforzo collettivo che dovrà impegnare tutti noi. Serve una struttura autorevole - e mi verrebbe da dire autoritaria - e imparziale che sia estranea al mediocre teatrino della politica nostrana. La protezione civile ha fatto egregiamente il suo dovere. Ce la caveremo da soli? Confesso di essere pessimista. Vede, i romani, il popolo più pragmatico della storia, nelle situazioni di emergenza ricorrevano al «dictator creatus rei gerendae causa» che in poche parole era un magistrato straordinario investito di tutti i poteri necessari per far fronte a particolari necessità di carattere civile in eccezionali circostanze. Questo è il mio convincimento, altrimenti qui non facciano nulla, ci mettiamo a strillare tutti e si perderà solo tempo».

Lei come ricostruirebbe i monumenti maggiormente danneggiati, e penso alla cupola delle Anime Sante, a Santa Maria Paganica, alla Basilica di Collemaggio?
«Il tamburo delle Anime Sante, opera settecentesca, va rifatto come era, è una delle cose più belle che si trova all’Aquila. Per quanto riguarda il recupero delle chiese vorrei rifarmi al soprintendente Moretti che fu travolto dalle polemiche per aver tolto il soffitto della basilica di Collemaggio. Io a proposito ho un ricordo personale. Un giorno, durante i lavori di restauro di Collemaggio, entrai nella basilica per vedere che cosa si stava facendo. E trovai proprio Moretti il quale prima un po’ brusco mi disse «lei che ci fa qui». Risposi che ero un cittadino che voleva sapere perché si stava togliendo quel bel soffitto che oggi vediamo solo nelle foto d’epoca. Lui mi disse “venga, venga a vedere, quel soffitto è di cartapesta” e in effetti mi fece vedere dei pezzi e mi resi conto che aveva ragione. Poi mi spiegò che lui stava recuperando la spazialità medioevale e io gli ho dovuto dare ancora ragione. Collemaggio ha recuperato la verticalità che non aveva più. Mi disse che questo suo progetto lo avrebbe esteso al transetto. Poi, a causa delle feroci polemiche che ci furono fu trasferito e il transetto non fu toccato. Se lo avesse rifatto forse oggi non sarebbe crollato. Per il transetto sono favorevole al recupero del progetto Moretti. Tra l’altro Moretti recuperò all’interno della basilica importanti opere d’arte che erano state dimenticate».

Lei nelle inchieste aperte per i crolli degli edifici in cui ci sono state vittime e penso fra gli altri alla Casa dello Studente o al Convitto difende uno degli imputati. Che idea si è fatto sulle responsabilità di quei crolli al di là delle posizioni specifiche dei vari indagati?
«Io su questo voglio essere come prima chiaro e franco anche se so che quello che sto per dire potrà suscitare reazioni e forti polemiche. Da mesi c’è una sistematica campagna di stampa che tallona le indagini giudiziarie sulle cause dei crolli e sulla individuazione delle responsabilità. Si alimentano così aspettative, si diffonde panico e si fa da risonanza polemica alla legittima ribellione dei congiunti e degli amici di quanti persero tragicamente la vita. I comitati costituiti dai parenti delle vittime svolgono attività solidaristica che va condivisa. Ma a volte si eccede. Mi riferisco ad esempio allo striscione mostrato in piazza che evoca come «assassini» soggetti che in base alla nostra Costituzione sono coperti dalla presunzione di non colpevolezza. Ecco, questo assomiglia più al giustizialismo che alla giustizia. Io credo che la difesa degli imputati si vedrà costretta a chiedere alla Corte di Cassazione che i processi siano trattati in un ambiente neutro e non condizionato da influenze esterne. Non è l’esorcismo del capro espiatorio la consolazione di chi soffre. Si tratta di stabilire in che misura il sacrificio di tanti sia da imputare alla violenza del sisma o se i crolli siano stati causati anche da carenze originarie delle strutture, incuria nel tempo, o interventi che le abbiano indebolite o compromesse. E si tratta di accertare se la catastrofe era nell’ordine delle cose prevedibili e scongiurabili».

Nulla potrà consolare chi ha perso gli affetti più cari e la rabbia aggiunta al dolore è qualcosa di devastante per ogni essere umano. Forse anche per questo ora si tenta di capire meglio ciò che è accaduto quella notte per fare in modo che si possa evitare che accada ancora in futuro. Qual è invece la sua opinione sulla vicenda dei mancati allarmi?
«Su questa vicenda specifica non voglio entrare per non anticipare giudizi che non mi competono. Posso solo dire che io quella notte ero tranquillo, non ero affatto allarmato. E infatti ero a casa e dormivo e solo per una serie di coincidenze fortunate mi sono salvato.»