I volti e le storie della tragedia

Un monumento virtuale, così il Centro ricorda le vittime del 6 aprile

Venti secondi cambiano una storia millenaria. Lunedì 6 aprile 2009. Il calendario, per una beffarda coincidenza, dedica il giorno che sta per sorgere a Celestino I, Papa medioevale antesignano di Pietro da Morrone, il più famoso Celestino V, immortalato da Dante come il pontefice del «gran rifiuto», l’unico nella storia della Chiesa che abbia rinunciato al trono di Pietro per tornare alla sobrietà della vita monastica. E’ il santo aquilano più venerato, le cui spoglie riposano nella monumentale basilica di Collemaggio riaperta ai fedeli nella notte di Natale dopo lavori difficili e rischiosi.
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Ore 3.32. Ventidue secondi dopo L’Aquila è irriconoscibile. Vite spezzate. Il bilancio finale è pesante: 308 vittime. Nomi e volti sono raccolti in un monumento virtuale costruito sul sito internet del nostro giornale. Erano donne e uomini in attesa di futuro. C’è Lorenzo, 20 anni, speranza del rugby nostrano. C’è Alessandra, 23 anni, dalla voce splendida che a Capri è già considerata una stella nascente; se n’è andata con la sorella Antonella, 27 anni, e la mamma Patrizia, 54. Ci sono Domenico e Maria Paola, 17 e 15 anni, i figli del giornalista che per primo dà notizia della tragedia incombente. Il sisma ha inghiottito anche il nonno Domenico. C’è Antonio Ioavan, il più piccolo, appena cinque mesi. E’ una bara bianca ai funerali di Stato.

Morto insieme a papà Costantin e a mamma Darinca; venivano dalla Romania con la speranza di una esistenza migliore. 308 storie per non dimenticare l’orrore di quella notte.
E’ la prima volta in Italia che un quotidiano realizza un’iniziativa di questo genere. Lo hanno fatto prima di noi il «New York Times» per le vittime delle Torri gemelle e lo spagnolo «El Paìs» dopo gli attentati nella metropolitana di Madrid. Da quando lo abbiamo realizzato, un settimana dopo il sisma, il memoriale delle vittime ha raccolto oltre 3mila messaggi: parenti, amici, compagni di scuola, colleghi. Ci scrivono i nostri lettori invitandoci a mantenerlo attivo. Nonna Renza, che ha perso la figlia incinta, ha raccontato al «Centro» che ogni mattina inizia la sua giornata accendendo il computer e leggendo i messaggi che vi arrivano, non solo quelli dedicati a sua figlia, ma a tutte le altre vittime del terremoto.

Una frase di antica saggezza recita: «Se vivi solo per te stesso, morirai solo e dimenticato»; ebbene, noi non vogliamo che nessuno sia dimenticato, che cali l’oblio su questo dolore. E’ per questo che, mentre il 2009 volge alla fine, chiediamo ancora aiuto ai lettori: nel memoriale mancano ancora diverse foto delle persone scomparse e in qualche caso anche elementi sufficienti per ricostruire quel che furono in vita. Chi può, chi vuole, ci invii dunque foto e notizie biografiche delle persone amate o semplicemente conosciute.
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Quella notte chiese barocche e un ospedale del terzo millennio: non c’è stata alcuna differenza. Sono crollati rovinosamente. Come l’imponente palazzo della Prefettura: sulla carta era stato designato luogo di coordinamento dei soccorsi in caso di calamità; nella tragica realtà si è rivelato un ammasso di macerie polverose. Ancora una volta, di fronte alla furia della natura, simboli delle istituzioni si sfarinano nel momento cruciale in cui avrebbero dovuto trasmettere sicurezza ed efficienza.

Protezione civile e governo hanno fronteggiato in maniera egregia l’emergenza acuta. Ventimila persone hanno avuto o stanno per avere un tetto sicuro e confortevole; altre 18mila sono però ancora sfollate nei centri della costa, a cento km da casa. La ricostruzione vera però, quella che comporta il salvataggio dei monumenti, delle chiese, dei palazzi del centro storico e la rinascita del tessuto urbano non è ancora iniziata. Se tutto va bene, ci vorranno tra i 5 e i 10 anni.

L’Aquila ha l’orgoglio di un’antica capitale. Europea e cosmopolita. Federico II, l’imperatore svevo che visse dal 1194 al 1250, «stupor mundi», la volle forte e invincibile. «Immota manet» è inciso nel suo gonfalone. Salda annidata sull’Appennino, come il magnifico uccello predatore da cui prende il nome. La tradizione racconta di una città con 99 castelli, 99 chiese, 99 fontane. Crocevia della storia. Fu nella chiesa di Collemaggio, scrive Ignazio Silone in «L’avventura di un povero cristiano», che «alla fine d’agosto 1294 l’eremita fra’ Pietro Angelerio del Morrone venne coronato pontefice alla presenza di cardinali, vescovi, principi e d’un immenso popolo in giubilo». L’autore di «Fontamara» e «Vino e pane» è lo scrittore che meglio d’altri nel corso del Novecento ha saputo elevare ad arte l’«abruzzesità», lo spirito del luogo. Perse i genitori nel sisma della Marsica del 1915; era ancora un ragazzo.
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Il terremoto te lo porti dentro sempre, anche se non sei stato direttamente lacerato da lutti e distruzioni. Per me che sono napoletano di Castellammare di Stabia c’è una data che mi ha segnato: 23 novembre 1980. Anche quella sera era domenica. Tremò l’Irpinia, un disastro. Ecco perché il tremore della terra mi suscita un terrore panico, ancestrale. Ecco perché nel mese di marzo, quando la sciame sismico ha cominciato a manifestarsi con maggiore frequenza e intensità all’Aquila, ho insistito in redazione affinché si desse il maggior rilievo possibile a quegli eventi che apparivano premonitori. Anche a costo di apparire allarmistici o menagrami.

Fosse servito a qualcosa. Prima del 6 aprile abbiamo interpellato esperti e studiosi; più si susseguivano le scosse più tranquillizzavano. Sul giornale ogni giorno abbiamo pubblicato un grafico con le scosse più forti e abbiamo raccontato piani di evacuazione carenti se non addirittura inesistenti. Una sottovalutazione generale. Imperdonabile. Una settimana prima della tragedia, una frettolosa riunione a Roma del comitato grandi rischi sancì che i terremoti sono imprevedibili e dunque non c’era nulla da fare.

La mattina del 5 sul «Centro» ci sono due pagine (la 2 e la 3, le più importanti del giornale) dedicate al racconto di una settimana scandita dalla paura e dai primi leggeri danni. Il fenomeno non accenna a diminuire ma le fonti ufficiali dicono: tutto sotto controllo. La «malanotte» incombe. La sera di quella domenica vado via dal giornale intorno alle 22.30. Al timone resta il caporedattore centrale Roberto Marino; mi chiama dopo un po’ per dirmi di una scossa di terremoto a Forlì. Facciamo ancora in tempo a darne notizia per il giorno dopo. Il destino si sta beffando di noi. Passata la mezzanotte Marino mi avverte ancora di due forti scosse all’Aquila. Il nostro Giampiero Giancarli, rimasto solo il redazione, è riuscito a riscrivere il pezzo nonostante l’ora tarda. Marino mi tranquillizza: usciamo con l’edizione aggiornata; sull’Aquila è il titolo di prima pagina. Ci stiamo illudendo. Facciamo i giornalisti, il nostro mestiere è dare notizie. Ma non possediamo il dono della preveggenza, non sappiamo ciò che si sta per scatenare.

Ore 3.32, la catastrofe. A Pescara l’onda sismica arriva a distanza di tre minuti. Mi alzo di scatto dal letto, guardo l’orologio. La scossa è lunga, sembra non finire mai. Come quella che ho impressa nella mente, 29 anni fa. Mando una raffica di sms, il primo a Giustino Parisse, il capo della nostra redazione all’Aquila. Non mi risponde. Mi chiamano invece Lorenzo Colantonio (sarà il primo giornalista ad arrivare ad Onna, al fianco di Parisse) e Roberto Marino. Dopo un po’ il consigliere delegato del giornale, Domenico Galasso, mi invita a raggiungerlo in macchina sul lungomare di Pescara dove ormai c’è una agitazione totale.

Con i nostri telefonini e un computer mettiamo su una redazione improvvisata nel giardino di casa di Roberto, a Montesilvano. Sono le 4, è buio pesto. Da Roma chiama Pier Vittorio Buffa: è stato direttore del «Centro» a fine degli anni ’90, ora dirige i siti locali del nostro gruppo editoriale. «Come va?» chiede. «Non lo so. Credo male. La scossa è stata troppo lunga. Devastante». Ricordo quei cento secondi in Irpinia. Rabbrividisco. Decidiamo di iniziare una diretta internet sul sito del Centro, le prime informazioni le dà Colantonio, poi Fabio Iuliano che riesce a spedire anche le prime foto. Riesco a parlare con i colleghi della redazione dell’Aquila, il quadro si fa fosco. Giustino è irrintracciabile.

Avrò sue notizie soltanto quando ormai è giorno, le 7 forse le 8. In una redazione insolitamente affollata per quell’ora ho visto scene di dolore vero. A Parisse gli vogliono bene tutti. I nostri inviati che sono partiti per raggiungere L’Aquila e gli altri paesi di cui si cominciano ad avere sommarie notizie chiamano a Pescara, sono costernati e confusi. C’è sbandamento. Che cosa si fa? Noi giornalisti siamo abituati ad essere testimoni del dolore. Ma quando ci tocca così da vicino? Il giornale potrebbe anche non uscire; in che modo e con quale linguaggio raccontiamo la tragedia che ci ha travolto? La sede dell’Aquila è un ammasso di macerie. I colleghi aquilani, tutti, hanno perso casa.

Riunisco chi c’è in redazione a Pescara; dico: chi vuole andarsene a casa può farlo, così può stare vicino ai propri cari. Non sappiamo ancora bene che cosa è successo, ma sappiamo che Onna non c’è più, che la famiglia di Giustino è distrutta. Chi decide di andar via, sappia che non lo considero «disertore». Sì, uso proprio questa parola, quasi fossimo in guerra. Nessuno dei giornalisti, dei poligrafici, degli impiegati va via. «Il Centro» deve uscire. A tutti i costi. Decidiamo di fare 40 pagine, tutte dedicate alla catastrofe. E’ la prima volta, credo, che un quotidiano formato tabloid dedica tante pagine ad un unico evento. E per giorni e giorni abbiamo continuato così, 40 pagine per edizione.

Fino ad oggi con il dopo-sisma sempre in primo piano. Ci siamo sforzati di essere la voce dell’Abruzzo del terremoto, scandita in ogni sua variante: la cronaca paese per paese, i reportage, le lettere. Credo che siamo stati anche un po’ servizio pubblico: le informazioni scientifiche sul sisma, le norme dell’emergenza, le leggi sulla ricostruzione. Abbiamo provato a farlo in un difficile equilibrio, attenti a non sposare tesi preconcette o pregiudizi, allo stesso tempo prudenti e spregiudicati, nel raccontare la vita quotidiana delle tendopoli, nel tener dietro alla gara contro il tempo per la costruzione di alloggi entro l’inverno.

Non abbiamo ignorato né le proteste dei cittadini né i successi delle istituzioni. Abbiamo raccontato prima l’estate e ora il Natale degli spettacoli di artisti solidali, senza dimenticare di essere un cordone ombelicale per gli sfollati sulla costa adriatica. Abbiamo seguito il G8 tra speranze e delusioni. Ci siamo presi le nostre critiche, quasi sempre giuste, qualche volta inutilmente malevoli. Ci hanno soprannominato il «giornale del terremoto» o anche «la Bibbia del terremotato». Ne siamo fieri. E abbiamo preso un impegno per l’anno che sta per cominciare: non ci fermeremo.
Lo dobbiamo ai nostri morti. Lo dobbiamo ai vivi.