Dalla trincea al manicomio «Matto per la mia Italia»

Le lettere di un giovane caporal maggiore di Giulianova inviato sul Carso spedite nel 1916 alla famiglia durante i ricoveri a Imola e a Teramo

di Annacarla Valeriano

«Mio carissimo papà, la mia malattia è febbre intestinale e un po' d'anemia. Si capisce che con la vita che si mena non si può sempre essere in condizione di florida salute!». Nel giugno 1916 il soldato del 122° Fanteria, Livio C., scriveva queste poche righe dall'ospedale da campo n° 84 allestito a breve distanza dalla linea del fuoco, sul Carso. A questa lettera, tra il giugno e l'agosto dello stesso anno, ne seguirono altre, tutte indirizzate a Giulianova, in provincia di Teramo, dove il giovane caporal maggiore, appena ventenne, aveva lasciato la famiglia e gli studi di ingegneria prima di essere richiamato alle armi. Alle spalle del ricovero in ospedale di Livio si stagliavano sullo sfondo 14 mesi passati al fronte, prima in trincea poi come aiutante di sanità in un reparto di medicazione avanzato, una buca poco distante dal terrapieno del fuoco, nel quale si accumulavano morti e feriti. Le corrispondenze di uno di questi "santi maledetti" - come Curzio Malaparte avrebbe definito in "Viva Caporetto!" i giovani testimoni degli orrori delle trincee - furono il prodotto di quella guerra "evento - separatore" che impastò sentimenti ed emozioni personali nel crogiolo delle scritture e della memorialistica nel tentativo di circoscrivere, almeno a parole, "l'abisso di sangue e tenebre" di cui avrebbe parlato lo scrittore, Henry James, all'indomani dell'entrata in guerra della Gran Bretagna. L'Abruzzo versò per la causa bellica un contributo pesante: furono 22.188 i morti al termine del conflitto, dei quali 10.582 deceduti per ferite riportate in combattimento. Livio C. affidò ad una serie di lettere scritte durante il periodo della sua malattia al fronte, «in un nuovo ambiente di tranquillità relativa», il racconto della sua esperienza di guerra. La lontananza dalla linea del fuoco sciolse le riserve ed egli si abbandonò al ricordo degli eventi vissuti nei mesi precedenti, esponendo il dolore, la paura e il lutto nella loro dimensione più intima. In questi scritti - rinvenuti nella cartella clinica del suo ricovero al manicomio di Teramo - emerge tutta la gradazione dei sentimenti legati alla guerra: dal consenso e dalla difesa dei valori patriottici, passando per la paura fino al rifiuto. Livio C. confessava: «Non vedo l'ora di ritornare a reggimento dove mi aspetta la trincea, posto glorioso per i veri figli d'Italia. Io che sento fortemente di appartenere a questa gloriosa schiera ritornerò senza la più incalcolabile preoccupazione benchè questi vigliacchi di Austriaci facciano uso di gas asfissianti». Tuttavia il patriottismo e l'adesione alla guerra non potevano cancellare la vita retrocessa ed umiliata della trincea che tornava con prepotenza davanti agli occhi: «mio carissimo papà, fummo bersagliati dall'artiglieria nemica tanto che di notte dovemmo sloggiare dal nostro piccolo rifugio per salvarci la pelle poiché la situazione era criticissima». E ancora, in una lettera alle sorelle: «Dopo quattordici mesi di fuoco continuo, di ansie, di sofferenze, di mortale trincea, finalmente l'animo mio riacquista la perd. uta tranquillità e penso a voi perché per voi vivo». È la vita alienata del fronte ad affollare i pensieri del giovane ed è la permanenza forzata «in quel campo di dolore, di gemiti, di morte» ad avere un peso determinante nel modificarne la sfera percettiva, disegnando i contorni di un nuovo paesaggio mentale. "Una terra di nessuno" - per riprendere l'espressione di Eric J. Leed - che avrebbe scavato un vuoto nelle personalità dei soldati. Tra confusione, promiscuità, lordura - elementi ben distanti dalle visioni edulcorate dell'uomo in trincea dei disegni di Achille Beltrame nelle copertine della "Domenica del Corriere" - attecchivano anche le prime larve delle nevrosi da combattimento. Livio C. ne fu colpito, venendo sbalzato dal campo ai manicomi di Imola e Teramo. Lo smottamento nella malattia mentale del nostro protagonista - per il quale l'alienazione psichica divenne quasi un rifugio estremo per sottrarsi alla guerra - è tutto nei pensieri scuciti che egli continuò a consegnare ai familiari. «Ho peggiorato di molto tanto che il Dottore del 122° mi consigliò di sottopormi a qualche cura e ciò a prevedere la nevrastenia che tenta sopraffarmi». E ancora: «Mio carissimo papà, ti assicuro che in questo lungo periodo ho fatto più di quello che ho potuto per la grandezza della bella Italia; la mia gioventù, la mia salute, la mia pace e la mia opera l'ho date completamente a lei. Ora sono un povero matto; non ho più salute, né pace, il mal di capo non mi lascia un minuto, l'impressione del flagello non m'abbandona mai e la notte svegliandomi di soprassalto piango o urlo a seconda dei casi. È la confessione reale di chi si sente affetto e pensa che per vero miracolo non sono morto su quelle rocce, specialmente nell'ultimo periodo». Appena due mesi dopo quest'ultima lettera Livio C. entrò nel manicomio di Imola, poi in quello di Teramo. Nulla sarebbe stato più come prima; un pensiero intorpidito del giovane riesce ancora a infilarsi fra le maglie dell'istituzione totale: «il freddo non mi fa scorrere la penna, perciò il pensiero è confuso». La guerra sembra lontana, Livio guarda a se stesso quasi con stupefatta tenerezza, la stessa con cui Philip Larkin, nella poesia "MCMXIV", guarderà agli innocenti della grande guerra: «mai più né prima né dopo come trasformati in un passato senza una parola - gli uomini lasciando in ordine i giardini, le migliaia di matrimoni durati un po' più a lungo: mai più tanta innocenza».

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