Don Palmerino fa 90 anni «Vi racconto piazza Duca»

Ha visto nascere la parrocchia di via Cavour nel 1956 e l’intera comunità di fedeli «Quando sono arrivato c’era il deserto. Molto si deve alla marchesa Imperato»

PESCARA. Ha visto nascere la parrocchia della chiesa Beata Vergine Maria del Rosario, in via Cavour, e domani che compie 90 anni don Palmerino Di Sciascio avrà intorno a sè tutta la “sua” gente a festeggiarlo. A cominciare dalla mattina, quando sarà accolto dai fedeli della chiesa, una comunità che ha guidato per 56 anni. Don Palmerino, infatti, parrivò in via Cavour nel 1951 quando la chiesa non era ancora stata edificata (la costruzione risale al 1956 e l'inaugurazione all'anno successivo) e per cinque decenni, oltre ad aver rappresentato un punto di riferimento per centinaia di famiglie e diverse generazioni di giovani, ha visto crescere, di par passo con la sua comunità, tutta la zona di piazza Duca degli Abruzzi.

Nato a Guardiagrele il 18 luglio del 1926, giunse a Pescara dopo la guerra, nel 1947, e il 29 dicembre del 1949 venne nominato parroco dal primo vescovo di Pescara Benedetto Falcucci. Fu anche il primo prete abruzzese a essere avvocato rotale che poteva discutere le cause di annullamento dei matrimoni. Oltre ad aver insegnato religione alle medie, al liceo Scientifico, al Classico e alle magistrali quando la scuola era di fronte alla stazione di Porta Nuova.

Don Palmerino, com’era Pescara subito dopo la guerra?

Spoglia di tutto, ma c'era una grande volontà di ricostruire, dopo la guerra che abbiamo subìto molto. Io con la mia famiglia fui sfollato a Molfetta.

Quale fu il suo primo incarico?

Nella cattedrale di San Cetteo con l'abate Brandano, nella chiesa stavamo facendo le rifiniture interne in quel periodo. Dopo due anni fui incaricato dal vescovo ad andare a Villa Santa Maria di Spoltore.

E dopo arrivò nella chiesa Beata Vergine Maria del Rosario?

Nel 1951 venni incaricato di andare a curare la vita spirituale nella zona di Zanni che allora cominciava da via Solferino, poi assunse il nome di piazza Duca degli Abruzzi. La chiesa era sempre in via Cavour. La zona era deserta, non c'era nulla. E c’era da costruire una comunità.

Fu difficile costruire quella comunità?

Non fu facile, l’incarico non era solo spirituale, ma nella sua complessità abbracciava tutti gli aspetti del quartiere. Era un rione sguarnito di scuole, uffici postali e telefonico, c'erano solo sterpi e canne, era in completo abbandono perché era considerata l'estrema periferia del centro. La popolazione si sentiva sola, sbandata, senza un centro di richiamo e di interesse. È stato difficile accostare i residenti, ma fu un grande atto di coraggio per allontanare i tanti pregiudizi verso la chiesa e i suoi operatori. Molta diffidenza c’era specialmente da parte degli anziani che vedevano girare questo prete. E la mentalità di allora era ostile verso la Chiesa.

Il suo ricordo più bello dei suoi anni a piazza Duca?

Appena misi piede in questa zona trovai molta corrispondenza e perfino tanta curiosità nei ragazzi che frequentavano le scuole elementari, che in realtà erano solo delle stanze attrezzate alla meglio.

Nel 2007, dopo oltre cinquanta anni lasciò la sua parrocchia, le dispiacque?

Tanto, fu un grande dispiacere abbandonare la comunità che avevo cercato di fondere con l’intento di trasformare la zona di Pescara nord, in una ricerca continua per gli interessi spirituali, sociali e culturali dotando la chiesa anche di una discreta biblioteca parrocchiale dedicata all'allora pontefice Pio XII.

Però il suo legame con quella comunità non si è mai spezzato.

Il vescovo Valentinetti mi ha nominato vice parroco e ho ancora uno spazio all'interno della chiesa. Sono rimasto in contatto con la comunità nello spazio consentito dalle regole comuni di buona creanza e di collaborazione.

La soddisfazione maggiore?

La corrispondenza di tutta la comunità, che ha preso coscienza di se stessa cominciando a essere un punto importante nella convivenza degli ideali. Con il passare del tempo la cultura generale, specie dei giovani, cominciò a crescere in qualità e numero.

La chiesa e la comunità sono scresciute anche grazie alla generosità delle donazioni?

La zona ha potuto fare progressi anche sul piano materiale in seguito alla donazione della Marchesa Imperato, grazie alla quale furono costruite delle realtà molto importanti per lo sviluppo di una società in crescita. La zona, col passare degli anni, oltreché di tanti edifici abitativi di edilizia privata, è stata ampiamente fornita di servizi comunali e di enti privati.

Avrebbe mai immaginato che il quartiere diventasse com’è oggi?

Mai. Ed essere stato un punto di riferimento è stata una responsabilità ma anche un onore e un orgoglio, c'erano cinquemila anime.

E Pescara come l'ha vista cambiare?

La città è cambiata in meglio, con una crescita molto dinamica e irresistibile che all'occhio dei cittadini sembrava inverosimile.

Venne anche insignito del titolo di cavaliere al Merito della Repubblica dal presidente Pertini e di un encomio solenne dall'allora sindaco D'Alfonso?

Due grandi soddisfazioni, l'encomio fu un segno di gratitudine della città verso il mio operato».

Il ricordo più brutto?

«In parrocchia qualunque tempo è breve perché le opere da compiere al suo interno sono sempre molteplici. E in 60 anni non si possono esaurire tutte, perché i ragazzi e i giovani che vi crescono danno continuo entusiasmo per la crescita e lo sviluppo. Più che il ricordo, c’è il rimpianto di non aver avuto altro tempo.

Sono passati quasi dieci anni dal suo pensionamento, come vorrebbe che la ricordassero?

Vorrei essere ricordato come avrebbe scritto il poeta latino Orazio, “Aere Perennius”, più perenne del bronzo. Una persona che ha condiviso con l'intera popolazione del quartiere le ansie della crescita e la maturazione degli eventi non soltanto prodotti dalla volontà umana ma soprattutto del disegno e dalla volontà di Dio.

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