I giudici: «Uccise l’ex maresciallo senza pietà, merita l’ergastolo» 

Omicidio di Penne, così la Cassazione rigetta il ricorso di Giancaterino e la condanna diventa definitiva «Per l’anziano una morte atroce: telecamere, testimonianze e macchie di sangue incastrano il killer»

PENNE. Mirko Giancaterino ha ucciso Gabriele Giammarino con «crudeltà, denotando efferatezza, assenza di pietà e volontà di infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive». Lo scrivono i giudici della Cassazione in un passaggio chiave della sentenza con cui confermano l’ergastolo per l’imputato, 40 anni, ritenuto colpevole in via definitiva dell’omicidio avvenuto il 13 settembre del 2015 a Penne. La vittima, ex maresciallo dell’Aeronautica, aggredito nella sua casa di via Castiglione Bernardo, ha subito a ottant’anni «una morte atroce, inesorabile, senza poter chiamare aiuto né scappare».
L’assassino, dopo averlo colpito con «violenti pugni e 26 coltellate», ha infatti dato alle fiamme il materasso «sotto il quale si trovava Giammarino». Da qui l’aggravante: aver appiccato l’incendio, secondo i giudici romani (presidente Mariastefania Di Tomassi, relatore Carlo Renoldi), «è espressione autonoma di crudeltà che trascende la mera volontà di arrecare la morte». Giancaterino, dunque, non merita alcuna attenuante alla luce delle «peculiari modalità dell’azione e dell’intensità del dolo», ma anche della sua «spiccata capacità a delinquere», confermata da «gravi reati» commessi in precedenza.
LA RICOSTRUZIONE. Con 34 pagine di motivazione, la Cassazione rigetta il ricorso presentato dai difensori del killer, gli avvocati Melania Navelli e Tiziana Cacciatore, e conferma la sentenza della Corte d’appello dell’Aquila. Tre «elementi indiziari» incastrano l’assassino. Il primo: «Le immagini della telecamera di una tabaccheria, attestanti la presenza di Giancaterino nella via dove si trovava l'abitazione della vittima in orario compatibile con l'omicidio, alla stregua delle dichiarazioni rese» da una testimone che vive nel palazzo in cui è avvenuto il delitto. Poi c’è il racconto della stessa donna «in relazione al riconoscimento di Giancaterino nella persona che lei aveva visto allontanarsi rapidamente dal piano superiore, dopo avere udito i rumori dell’aggressione». Ma a inguaiare l’imputato è stato anche «il rinvenimento, sulle scarpe da ginnastica calzate da Giancaterino la mattina dell'omicidio, di tracce ematiche riconducibili alla persona offesa, stante la perfetta corrispondenza dei relativi profili genetici».
LE TRACCE DI SANGUE. La Cassazione rimarca «l’assenza di una ragione plausibile per cui l'imputato dovesse trovarsi in prossimità della casa di Giammarino nelle prime ore del mattino, non avendo nemmeno provato ad acquistare le sigarette nel distributore automatico vicino alla telecamera». Va registrato anche «il tentativo di celare le tracce della colluttazione con Giammarino, lavando sia il proprio corpo, sia gli indumenti, nonché cercando di occultare le scarpe calzate la mattina del delitto e la bicicletta utilizzata per recarsi a Penne». I carabinieri hanno riscontato «la compatibilità tra le impronte lasciate nell'abitazione della vittima e la conformazione della suola delle scarpe indossate dall'imputato quella stessa mattina, nonché la presenza di graffi sulla schiena, compatibile con la posizione assunta dall'aggressore nel corso della colluttazione».
LA TESI DIFENSIVA. Le sentenze di primo e secondo grado, prosegue la Cassazione, «hanno puntualmente evidenziato gli aspetti di incoerenza o di franca inverosimiglianza rilevabili nella versione alternativa offerta dall'imputato, il quale ha giustificato la propria presenza a Penne con la necessità di procurarsi le sigarette, in realtà mai oggetto nemmeno di un tentativo di acquistarle; ha motivato il suo transito nella stradina in cui si trovava l'edificio dove abitava la vittima con l'impellente necessità di assumere lo stupefacente, laddove ben avrebbe potuto iniettarlo ovunque, sia in campagna, sia in altre parti dell'abitato di Penne, le cui strade, data l'ora mattutina, erano certamente poco trafficate; ha spiegato la presenza delle macchie di sangue presenti sulle scarpe (e sui pantaloni) con una casuale contaminazione avvenuta a seguito del contatto con l'erba del giardinetto in cui si sarebbe inginocchiato per iniettarsi lo stupefacente, senza che, però, sia stato effettivamente dimostrato che la siringa repertata fosse stata da lui utilizzata».
IL MOVENTE. Per la difesa, «la mancata individuazione del movente non avrebbe dovuto condurre all'affermazione di responsabilità dell'imputato, in particolare in presenza di un quadro indiziario di tenore tutt'altro che univoco. E, anzi, l'assenza di effrazione, segno che la vittima aveva spontaneamente aperto al suo omicida, il fatto che Giammarino, pur essendo le prime ore del mattino, fosse vestito, segno che sapeva di dover ricevere qualcuno, la presenza di impronte appartenenti a terze persone, l'estrema violenza dell'aggressione, sintomo di un coinvolgimento emotivo da parte dell'aggressore, avrebbero dovuto condurre a ritenere, più verosimilmente, il coinvolgimento di un altro soggetto». Ma la Cassazione ribatte: «Tali considerazioni, certamente suggestive, si infrangono con la consolidata giurisprudenza la quale ritiene che la mancata individuazione del movente sia del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della responsabilità, una volta che sia stata raggiunta la prova dell'attribuibilità dell'azione all’imputato».