Infermieri in trincea «All’ospedale Covid credevo di morire» 

Alla vigilia della Giornata internazionale dei sanitari Matteo Primavera racconta le cure al primo paziente positivo

PESCARA. È sfuggito ad una epidemia di Ebola al Sacco di Milano e ora combatte contro il Coronavirus nelle corsie ospedaliere pescaresi, diviso tra Rianimazione e dipartimento Covid. Ma «la notte peggiore della mia vita», rivela Matteo Primavera, infermiere di 31 anni, pescarese, originario del Foggiano, impegnato fino a poco tempo fa nelle varie campagne di screening di Pescara e Montesilvano, è stata quella del 28 febbraio 2020.
Dieci giorni dopo, si sarebbe scatenato l’inferno del lockdown. Quella notte «non la dimenticherò mai perché ho avuto tanta paura di morire», rivela.
Alle 21.30 di quella sera il suo destino, e quello di altri colleghi, incrocia quello del primo paziente Covid entrato all’ospedale Spirito Santo, un pescarese di 45 anni, di ritorno per lavoro dalla Lombardia. «Ero con la mia collega Valeria nelle stanze Covid esterne al presidio ospedaliero, che tra noi chiamiamo le casette, ex istituto bancario. Stavamo lavorando, sembrava tutto tranquillo anche se eravamo schermati da tute e protezioni», rammenta l’infermiere di San Severo, laureato all’università d’Annunzio nel 2012, «ad un certo punto il pronto soccorso ci manda il paziente che aveva brividi di freddo, mal di gola, lacrimazione. Stava male, ma in quel momento non ci riuscì a rivelarci il suo stato d’animo. Cominciarono esami e prelievi. Alle 3 del mattino il professor Giustino Parruti, primario del reparto Infettivi e responsabile del Covid hospital, ci informò che avevamo tra le mani il primo caso di Covid in città. Ci raccomandò di stare attenti. Con la collega ci guardammo in faccia, eravamo dapprima increduli, poi via via sempre più spaventati. In quel periodo si parlava di Covid altrove, nel mondo, mai avremmo pensato che potesse toccare anche a noi. Non sapevamo come muoverci, cosa fare, è stato terribile».
«Il paziente non era ancora stato informato della diagnosi», prosegue il 31 enne con alle spalle quattro anni di esperienza all’ospedale Sacco di Milano accanto al professor Massimo Galli con il quale ha combattuto l’Ebola, tra il 2015 e il 2018 «lo ha capito da solo, quando alle 6 del mattino, al risveglio, ci ha visti disinfettare maniacalmente gli ambienti e noi stessi, col cloro. Era cosciente, vigile. Disse di aver avuto il sospetto dai sintomi, che era preoccupato per la moglie e figli. A quel punto eravamo tre persone terrorizzate in una stessa stanza. Lo abbiamo infilato nella barella di biocontenimento e condotto al sesto piano, il primo reparto Covid prima del trasferimento al palazzo rosso. Ma l’incubo era appena all’inizio: dal 29 febbraio all’8 marzo gli arrivi dei pazienti continuavano incessanti, un flusso inarrestabile, non facevamo in tempo a sistemare un paziente che ne arrivava un altro. Un inferno. Eravamo tutti in ansia, tutto in divenire, un susseguirsi di emozioni che ancora oggi stiamo vivendo. Ma siamo uniti, medici e infermieri, ci facciamo forza tra noi. Se reggiamo l’urto di tanta fatica, anche se ci sono stati momenti in cui non ce la facevamo più, ma andiamo avanti con determinazione è grazie alla grande umanità e professionalità del professor Parruti, delle dottoresse Antonella Frattari e Irene Rosini e tutti i colleghi, un team straordinario e preparato ad affrontare la guerra che stiamo combattendo».
Dopo la laurea magistrale e un master in Terapia intensiva all’università Bicocca, la trincea quotidiana dell’infermiere Primavera è al Covid hospital e dipartimenti no Covid. I ricordi del vissuto, «i turni massacranti tra i rumori dei respiratori che tengono in vita le persone, gli odori dei farmaci, il dolore dei malati, te li porti anche a casa», gli provocano un groppo in gola. «Non dimenticherò mai», prosegue, «gli occhi di un uomo di 61 anni che prima di spirare ci disse: “Salutate i miei figli”. O il carabiniere che al risveglio dal coma non parlava ma piangeva davanti all’immagine di moglie e figli contattati in videochiamata. Le nostre lacrime non si vedevano ma ci scivolavano dentro gli scafandri». Il sogno dell’infermiere che per giorni ha occupato una postazione al pattinodromo dei Colli per fare i tamponi alla popolazione, è «ritrovare la pace e la serenità» insieme ai suoi affetti, la fidanzata Anna Ostuni, operatrice sanitaria a Lodi, i genitori Giuseppe e Tonia, i fratelli Michele e Angela. E un auspicio: «Spero che questo anno orribile non venga mai dimenticato dalla gente perché ci ha insegnato la resilienza, il coraggio e, tutto sommato, ha anche tirato fuori il meglio di noi».