Savina: ecco chi era Montinaro caposcorta del giudice Falcone 

Il teatino che arrestò Brusca racconta quel tragico sabato pomeriggio di 32 anni fa 

Sono trascorsi 32 anni dalla Strage di Capaci. Da quel 23 maggio 1992, quando Cosa Nostra colpì al cuore l'Italia facendo saltare in aria, con 500 chili di esplosivo, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Quattro anni dopo, Luigi Savina, all'epoca capo della Squadra Mobile di Palermo, mise le manette ai polsi di Giovanni Brusca, l'uomo che aveva premuto materialmente il pulsante per far esplodere il tritolo. Savina, originario di Chieti, oggi 70enne, ex prefetto e vice capo della Polizia, presidente fino a qualche tempo fa del Premio Borsellino, ci racconta la morte del giudice Falcone e dei ragazzi della scorta perché «il ricordo è fondamentale, coltivare la memoria tra le giovani generazioni è importante».
Come ha conosciuto i ragazzi della scorta di Falcone?
Avevo già fatto alcuni periodi di servizio in polizia a Palermo e, al momento della Strage di Capaci, mi trovavo a Pescara. Nel 1993 sono stato richiamato dal Servizio Centrale operativo per occuparmi di alcuni fatti di sangue accaduti a Palermo dove, tra il 1994 e il 1997, sono stato a capo della Squadra Mobile. Gli uomini di scorta di Falcone li ho incontrati ad inizio 1990: a giugno 1989 c'era stato un primo "attentato fallito" a Falcone, sulla costa palermitana dell'Addaura, dove il giudice aveva affittato una villa per l'estate. Un giorno che aveva ospiti alcuni magistrati, la scorta individuò dei candelotti esplosivi, che la mafia non era riuscita ad attivare. Nel 1990 Falcone era stato trasferito a Roma, sotto invito di Martelli: la sua scorta in settimana prestava servizio alla sezione omicidi e nel week end si occupava del giudice Falcone, che riscendeva in Sicilia. In particolare Antonio Montinaro lavorava al mio fianco.
Chi era Montinaro?
Era un ragazzo sveglio, solare, brillante, con un'intelligenza viva. Un uomo e un poliziotto onesto, dedito alla Stato. Negli anni della scorta al giudice Falcone diceva di aver paura, di non essere un folle, ma la sua era dedizione con piena consapevolezza. Non si tirava mai indietro. Quel 23 maggio 1992, era un sabato, Falcone scendeva insieme alla moglie da Roma, in aereo. La scorta, come di prassi, andò a prenderlo all'aeroporto di Punta Raisi. Tornano indietro, all'altezza di Capaci l'esplosione. Brusca qualche giorno prima aveva effettuato una prova: la macchina di Falcone correva a 160 chilometri l'ora e gli attentatori avevano messo un segnale per verificare la tempistica dal momento dell'impulso con il telecomando all'esplosione vera e propria. Fu Giovanni Brusca premere il bottone del telecomando.
Quando ha saputo della strage di Capaci e della morte di Montinaro e di tutta la scorta cosa ha provato?
L'intero Paese è rimasto attonito. Avvertivo dolore per quello che c'era stato, per Falcone e per le giovani vite spezzate. Con la morte di Falcone l'Italia ha preso coscienza che la mafia aveva raggiunto l'apice. Furono mandati i militari come vigilanza sotto casa dei magistrati. È stato un momento durissimo. Per me, un pugno nello stomaco sapere che Montinaro, come i suoi giovani colleghi, era morto compiendo il suo dovere: un ragazzo di 28 anni, con un figlio di un anno e mezzo e uno di 4 anni e la vedova sola a Palermo. Una situazione anche dal punto di vista umano molto difficile.
Nel 1996 lei ha arrestato Giovanni Brusca. Lo ha vissuto come un riscatto personale oltre che dello Stato?
Nel 1994 era stato arrestato Totò Riina, ma erano ancora liberi latitanti del calibro di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Iniziammo la caccia agli uomini che avevano tolto la vita a Falcone e Borsellino. Brusca, a quel tempo, reggeva il mandamento di San Giuseppe Jato. Veniva da una delle famiglie mafiose più importanti: a 12 anni portava il pasto ai latitanti, un killer feroce e spietato. A maggio 1996 lo abbiamo localizzato in un luogo di villeggiatura vicino Agrigento. Un suo collaboratore gli aveva dato delle schede telefoniche che ci hanno portato dritti a lui. Lo abbiamo preso a Cannatello, nella casa dove era latitante con la moglie, il figlio, il fratello e la compagna del fratello. Ci fu un'irruzione alle 21 di sera, mentre Brusca parlava a telefono. Mi sono sempre sentito un uomo dello Stato: lui aveva ucciso Falcone, la moglie, la scorta, nel 1983 aveva messo il tritolo davanti a casa di Rocco Chinnici procuratore di Borsellino e Falcone. Proprio nell'anno dell'arresto Brusca aveva fatto ammazzare Giuseppe Di Matteo, figlio di un suo sodale, sciogliendolo nell'acido. Era un ragazzino di 12 anni.
Come hanno reagito l'Italia e Palermo all'arresto di Brusca?
Quando la sera hanno dato l'annuncio, in tv trasmettevano un film su Giovanni Falcone. La Palermo silente e preoccupata, quella delle lenzuola bianche ai balconi come schermo per non vedere, è scesa in strada. Ci hanno accolto come eroi, tra gli applausi. Non era la vittoria della polizia, ma dello Stato, di ogni cittadino perbene. Brusca, dopo l'arresto, chiese subito di parlare e iniziò a collaborare.
Dopo 26 anni in carcere, Brusca dal 2023 è un uomo libero. Che effetto le fa?
Le rispondo con le stesse parile che disse Maria Falcone: “So che è dura, ha ammazzato mio fratello ma usufruisce di quelle norme volute da Giovanni per sconfiggere la mafia”. L'obiettivo era smantellare Cosa nostra anche con il supporto dei collaboratori di giustizia come Brusca.
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