Gildo Valle: io precursore del “tiki taka” con Viciani

«Negli anni 70 a Terni facevamo il “gioco corto” come il calcio di Guardiola»

PESCARA. Innamorato del calcio. È il suo mondo da circa sessant’anni, ma la passione di Gildo Valle per questo sport è rimasta invariata. L’ex mezz’ala della Ternana dei miracoli racconta a il Centro la sua carriera che ha raggiunto il culmine con la serie A.

Valle, quando ha iniziato con il pallone?

«Da bambino con gli amici di infanzia di Tocco da Casauria, il paese dove sono nato. Quando avevo 13 anni la mia famiglia si trasferì a Roma e la mia prima squadra fu il Fiumicino. Dopo due stagioni feci un provino con la Lazio: stavo per firmare, però poi arrivò Guido Masetti (terzo portiere dell’Italia campione del Mondo nel 1934 e nel 1938, ex Roma e Verona, ndc), ai tempi tecnico della Juniores della Roma, che mi volle con sé».

Come è stato l’impatto con il club giallorosso?

«Molto positivo. Sfiorammo due volte il titolo nazionale. Prima con la Juniores pareggiammo in finale contro la Juventus di Zigoni e Tancredi, ma il lancio della monetina regalò il titolo ai bianconeri. L’anno successivo perdemmo la finalissima contro l’Inter di Facchetti, Mazzola e Boninsegna. Quel giorno con noi giocava anche Picchio De Sisti che, nonostante la giovane età, era già entrato in pianta stabile nella prima squadra. Anch’io spesso mi allenavo con i grandi, ma non ho ebbi la fortuna di debuttare».

Poi le strade si separarono.

«La Roma mi propose di andare in prestito ad Alatri in Eccellenza, ma rifiutai perché avevo altre richieste. Accettai quella della Puteolana (4ª serie) disputando un buon torneo. L’anno successivo iniziai il servizio militare alla compagnia atleti all’Aquila. C’erano De Sisti, Boninsegna, Rizzo (scudetto con la Fiorentina nel 1969, ndc) e il mio caro amico Bruno Pace che mi accompagnava spesso con la sua fiammante Spider di colore verde. Iniziai il campionato con l’Aquila di Collesi, ma a dicembre tornai a Pozzuoli. Nel 1996 fui acquistato dall’Internapoli dove rimasi per quattro stagioni».

In Campania ebbe inizio la sua scalata.

«L’Internapoli aveva grandi ambizioni. C’erano Wilson e Chinaglia, quest’ultimo acquistato a peso d’oro, circa 70 milioni di lire e in seguito entrambi andarono alla Lazio vincendo lo scudetto 1974. Al primo colpo centrammo la promozione in C con Sentimenti II, poi sostituito dal giovanissimo Di Marzio. In C due secondi posti, prima con Seghedoni (ex Pescara), poi con Vinicio che nel 1970 mi portò alla Ternana in B. Dopo un campionato chiuso al 12° posto Vinicio andò a Brindisi e in Umbria arrivò Viciani».

Corrado Viciani, il “Profeta”, un allenatore che ha segnato la storia della Ternana.

«Inventò il cosiddetto “gioco corto”, un sistema basato su possesso palla, reparti stretti, pressing alto, scambi corti e sovrapposizioni. Alcuni dissero che anticipò il famoso calcio totale degli olandesi, di recente altri hanno rivisto l’idea di gioco di Viciani nel “tiki taka” del Barcellona di Guardiola. Forse è un’esagerazione, ma di certo lui fu un innovatore».

Erano inedite anche le sue disposizioni…

«Viciani non portava mai la squadra in ritiro, nemmeno il giorno prima della partita. Lo faceva soltanto a Natale e a Pasqua per non ritrovarci appesantiti a causa di un’alimentazione sbagliata. Prima si giocava durante le festività, in fondo la sua scelta era comprensibile. È morto lo scorso febbraio e la società gli ha intitolato una curva dello stadio Liberati».

Ci racconti il giorno della promozione.

«Indimenticabile. Segnai il primo gol nel 3-1 con cui battemmo il Novara conquistando la A per la prima volta nella storia del club. Avevamo tanti calciatori forti, come Mastropasqua, Marinai, Cucchi (papà dell’interista Enrico, ndc). La città era impazzita: i ternani sono passionali, ti danno una spinta incredibile. Due anni fa sono stato a Terni per il quarantennale della prima promozione».

L’anno dopo, finalmente, l’esordio in A.

«Saltai i primi mesi per la rottura del menisco e venni operato dal professor Perugia. Debuttai a 29 anni a San Siro contro l’Inter di Mazzola, Corso e Facchetti. Non mi emozionai perché Viciani mi disse: “Tu e Traini non siete al top per cui farete un tempo ciascuno, tanto non sono queste le gare in cui dobbiamo fare punti”. Un ragionamento che non mi ha mai trovato d’accordo. Ma non fu quella la causa della retrocessione, piuttosto la società sbagliò a non aver arricchire l’organico di elementi con esperienza in A. Dovevamo prendere Altafini che aveva 34 anni, ma Viciani si oppose perché soffriva i grandi nomi».

L’anno dopo l’immediato ritorno in A.

«Sì, con Riccomini arrivammo terzi alle spalle del Varese e dell’Ascoli di Mazzone. Tornando nella massima serie ebbi poche chance: allora a 30 anni eri già considerato un vecchietto. Chiudemmo in penultima posizione. Dopo andai Nocera, prima di finire la carriera a Sulmona a 38 anni, dove iniziai a ricoprire il ruolo di direttore sportivo, infine di allenatore».

Sulmona, Pratola, poi il Francavilla di Luciani.

«Personaggio unico. Mi telefonava di notte, alle due, alle tre e mia moglie saltava dal letto per la paura. Aveva un carattere difficile, ma ho un buon ricordo di lui. Lo spingevamo a comprare il Pescara, ma non se l’è sentita di compiere questo passo».

Qual è l’avversario più forte che ha incontrato?

«Ne ho visti tanti: Rivera, Zoff, Altafini, Mazzola, Corso e, soprattutto, Suarez che faceva lanci incredibili con quei palloni di allora».

Il calcio italiano è in crisi?

«È un periodo di transizione, torneremo presto ai massimi livelli, malgrado l’elevato numero di stranieri tolga spazio agli italiani. Consoliamoci con il fenomeno nostrano, Marco Verratti: mi auguro che venga valorizzato a dovere».

Il suo allenatore preferito? «Zeman è puro divertimento, Di Francesco arriverà molto in alto, Allegri è una sorpresa, non credevo fosse così bravo. Ma è Ancelotti il mio preferito per l’equilibrio e la grande personalità».

Giovanni Tontodonati

©RIPRODUZIONE RISERVATA