Massaro: io e il Milan i miei sogni realizzati 

Prima a Vasto, poi a Miglianico a giocare a golf: il campione si racconta

MIGLIANICO. Lo chiamavano Provvidenza, perché entrava dalla panchina durante la partita e lasciava il segno. Un gol o un assist, ma Daniele Massaro non passava mai inosservato. Ha fatto godere i tifosi del Milan. Negli anni Ottanta e Novanta ha vinto tutto: Mondiali, Champions e scudetti. Adesso è uno degli ambasciatori del club rossonero. E ha trascorso il week end in Abruzzo: prima a Vasto e poi al Miglianico Golf Club dove ha partecipato, ieri, alla Coppa del Presidente.
Massaro, chi la ribattezzò Provvidenza?
«Il giornalista di Mediaset Carlo Pellegatti. Entravo dalla panchina e segnavo. Risolvevo un po’ di problemi. Poi, il nomignolo è passato sulla bocca di tutti ed eccomi diventato Provvidenza».
Attaccante per necessità?
«Di solito uno nasce attaccante e poi, pian piano, retrocede a centrocampo o in difesa. Io, invece, sono nato centrocampista e poi mi hanno trasformato in attaccante».
Chi è stato?
«Arrigo Sacchi. Quando arrivai al Milan, mi disse che non c’era posto per me. Che non avrei mai giocato. E allora gli dissi: “Insegnami che cosa devo fare”. E così, un po’ alla volta, sono entrato nei meccanismi di una squadra fantastica. Il Milan aveva i campioni, ha rivoluzionato il modo di fare calcio. Ma, soprattutto, aveva uno spogliatoio affiatato. Un valore aggiunto».
La partenza del Milan di Sacchi non fu granché?
«Partimmo male, ma dopo l’eliminazione con l’Espanyol ci chiudemmo negli spogliatoi e ci chiedemmo: “Non sarà mica che ha ragione lui?”. Da lì cambiò tutto e iniziò l’epopea del Milan di Berlusconi».
Oggi il Milan?
«Dopo la gestione Berlusconi, ci sono stati due cambi di proprietà. Bisogna capire il nuovo progetto, la mission di un marchio che nel mondo è sinonimo di vittorie e ha grande prestigio. Ho la sensazione che l’amministratore (Gazidis, ndr) abbia inquadrato la situazione e stia lavorando per il futuro. Ovviamente, tutto quello che accade al Milan ha grande risonanza mediatica. Io credo a un nuovo inizio e a un nuovo progetto per cercare di rinverdire i vecchi fasti».
Oggi si gioca un altro calcio.
«Ai miei tempi, anni Ottanta e Novanta, c’erano tanti top player. Ora ce ne sono di meno. Gli stranieri che venivano erano selezionati e di qualità. Oggi arriva di tutto. E noi, come movimento, abbiamo avuto un buco generazionale testimoniato dalla mancata partecipazione ai Mondiali di Russia 2018. Ora ci sono giovani interessanti e la Nazionale sta riprendendo quota come dimostrano i risultati del ct Mancini».
Si gioca anche un altro calcio in questi giorni.
«Un calcio figlio della necessità dei tempi. Della pandemia con cui abbiamo dovuto fare i conti. Sì, è un calcio strano, particolare, perché manca la spinta del pubblico in campo».
Senza quel mano di Muriel sabato sera la lotta scudetto sarebbe stata riaperta?
«Non lo so fino a che punto. Il distacco sarebbe rimasto notevole a sei giornate dalla fine. Resta la grande Atalanta che sta giocando un campionato a sé. È il frutto di un grande lavoro di tutte le componenti. Corre tanto, perché corre bene. È organizzata e vederla giocare in armonia è un piacere. Anche a noi del Milan dicevano che saremmo scoppiati a forza di fare sempre pressing, però la storia ci insegna che abbiamo prima vinto tutto e poi siamo scoppiati».
Si va verso il nono scudetto di fila della Juve.
«Non c’è stata una squadra che l’abbia contrastata fino in fondo in questi anni. Ha sempre avuto due squadre con cui fare fronte agli impegni. Ha una rosa più profonda e di qualità».
Due flash: attore non protagonista ai Mondiali vinti in Spagna nel 1982 e uno dei trascinatori di Usa 94 conclusa con la sconfitta ai rigori in finale contro il Brasile.
«Due dimensioni diverse. In Spagna ero un ragazzino, venivo da un grande campionato giocato con la Fiorentina. Ero il miglior giovane e Bearzot mi portò per fare il vice Tardelli. Ma non trovai spazio…».
Ci fu la storia dell’intervista prima dei Mondiali.
«Sì, dopo l’amichevole con il Braga parlai con i giornalisti. Dissi cose normali. Solo che su alcuni giornali il giorno dopo trovai concetti non miei. Tipo: “Il ct parla solo con i vecchi” e così via. Da lì iniziarono le polemiche che portarono al famoso silenzio stampa. Io certe cose non le avevo dette, sta di fatto che Bearzot mi tenne lontano anche dalla panchina».
Nel 1994?
«La mia grande rivincita. Tornai in maglia azzurra e a chiamarmi fu l’allenatore che mi aveva detto che con lui non avrei mai giocato».
Finì male.
«Male? Vice campioni del mondo, mica tanto! Arrivammo alla finale scarichi, è vero, pieni di acciacchi e infortuni. Riuscimmo a pareggiare con il Brasile, perdemmo ai rigori. Ma eravamo a pezzi. Ne calciai uno anch’io, sbagliandolo. Ma io non ne avevo mai tirati».
Il calciatore più forte con cui ha giocato?
Si alza in piedi e poi si inginocchia. «Sua maestà Marco Van Basten. E poi Franco Baresi, un grande. Contro invece dico Maradona, basta e avanza».
Rimpianti?
«Rifarei tutto quello che ho fatto. Forse, se avessi incontrato prima Arrigo Sacchi avrei commesso meno errori in gioventù. Ma sono contento. Io sono nato milanista e ho giocato nel Milan che ha vinto tutto. Posso dire di aver esaudito i sogni di quando ero bambino».
Le differenze del calcio di oggi?
«Mancano senso di appartenenza, umiltà nel lavoro e disponibilità verso il gruppo. Io ero un finalizzatore, concretizzavo il lavoro di tanti compagni. Oggi, invece, basta poco per diventare fenomeni».
Estasiato dall’urlo di San Siro.
«Decidere il derby e sentire lo stadio che inneggia il tuo nome è impagabile. Specialmente se sei un tifoso rossonero. I tifosi del Milan sono straordinari: erano in 80mila in serie B contro la Cavese. Non bisogna mai dimenticarlo».
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