Rischio prescrizione per Sara Il padre: «Ma questa è giustizia?»

I giudici d’appello dispongono una nuova perizia dopo la condanna in primo grado di una pediatra Il dolore del papà: «Mia figlia non torna, ma almeno vogliamo che tutto si faccia in tempi rapidi»

TERAMO. Dice papà Dovilio: «E’ giustizia questa? Noi attendiamo risposte da sette anni». Da quando sua figlia Sara, una cascata di riccioli biondi nelle foto che raccontano un futuro che non c’è più, è morta a causa di una sepsi, una infezione non diagnosticata che ha provocato una disidratazione. Così, almeno, hanno stabilito i periti del tribunale di Teramo. Ma ora si ricomincia perchè la Corte d’appello ha disposto una nuova perizia nell’ambito del procedimento avviato dopo il ricorso presentato da Mariangela Ferrari, la pediatra che all’epoca dei fatti era in servizio all’ospedale di Sant’Omero e che in primo grado è stata condannata ad un anno e sei mesi per omicidio colposo. Il reato è vicino alla prescrizione e per la famiglia della piccola è una corsa contro il tempo.

Questa è la storia di Sara Rapini, tre anni, raccontata attraverso i documenti processuali che si solito scivolano nelle aule di giustizia come in una catena di montaggio. Sara come Maria Teresa Nallira, la bambina di sei anni di Montorio uccisa da una leucemia diagnosticata in ritardo. Anche per lei nuova perizia in appello dopo il ricorso dello stesso medico condannato in primo grado in un procedimento che è ormai prescritto. «La mia Sara non torna», dice Dovilio Rapini, «ma diventa difficile credere che potrà avere giustizia. I giudici di secondo grado hanno disposto una nuova perizia per fare chiarezza sulla morte di mia figlia e il 14 di questo mese torneremo nuovamente all’Aquila perchè in quella data c’è l’incarico ad un nuovo medico. Il caso non è ancora prescritto, ma di questo passo non so che cosa potrà succedere. Sono trascorsi sette anni da quando Sara è morta e ora tutto ricomincia da capo. Mi dicono che sono i tempi della giustizia e io posso anche capirlo. Ma i tempi di una famiglia, lo strazio di due genitori non vengono mai considerati? Non servono a niente e nessuno?».

Sara morì il 27 dicembre del 2009 all’ospedale di Ancona dopo una disperata corsa in ambulanza da quello di Sant’Omero. L’inchiesta scattò dopo la denuncia dei familiari e, in un processo di primo grado ormai giunto alle battute finali, la superperizia disposta dal tribunale, e affidata all’anatomopatologo Vittorio Fineschi (lo stesso a cui è stata affidata quella di Giulio Regeni) e Nicola Pirozzi (del servizio di anestesia e rianimazione dell’ospedale Bambin Gesù di Roma) rimise tutto in discussione. A cominciare dalla consulenza portata in aula dalla pubblica accusa secondo cui la piccola sarebbe morta per leucemia. «Nessuna leucemia», hanno scritto Fineschi e Pirozzi, «viene esclusa dall’esame del midollo osseo. La bambina morì disidratata perchè non venne fatta nessuna terapia».

Dice papà Dovilio (che in appello è assistito dall’avvocato Andrea Colletti): «Dopo sette anni ripartiamo da capo. Abbiamo nominato un nostro consulente per partecipare a tutte le operazioni. L’ultima volta siamo stati a Bologna per l’avvio delle operazioni. Purtroppo mi sono reso conto che nelle aule di giustizia non c’è nessuna certezza. Il nostro caso è davvero emblematico, ma noi non molliamo e andiamo avanti. Perchè è giusto fare così, capire realmente quello che è successo». Il dolore e l’amarezza restano imbrigliati in un garbuglio formale di fascicoli e procedure. « In sette anni siamo passati da una procedimento penale all’altro», dice ancora il papà di Sara, « da una perizia all’altra. Pensavamo che quella disposta dal tribunale di Teramo, in quell’occasione dal giudice Giovanni Cirillo, fosse quella definitiva. Invece ci siamo ben presto resi conti che così non è. Intanto gli anni passano». Sara oggi avrebbe dieci anni, andrebbe a scuola, giocherebbe con i due fratelli. «Sara aveva un sorriso che conquistava tutti», ricorda Dovilio, «e una gran voglia di vivere. E pensare che non abbia avuto un futuro è la cosa più difficile da accettare per noi genitori».

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