Il giudice onorario del Tribunale di Teramo Massimo Biscardi

Teramo, evade l’Iva per pagare gli operai: imprenditore assolto 

Il 60enne era accusato di non aver versato più di un milione di imposta, ma ha dimostrato che quei soldi servirono a pagare le retribuzioni e a continuare l'attività. Il giudice: ha fatto tutto ciò che ha potuto

TERAMO. Il giudice che lo ha assolto lo ha messo nero su bianco nelle motivazioni della sentenza: «ha preferito pagare le retribuzioni dei lavoratori per garantire la prosecuzione dell’attività di impresa impegnando anche il suo patrimonio personale per garantire il ricorso al credito bancario». Perchè il 60enne imprenditore teramano finito a processo per non aver versato quasi un milione e 200mila euro di Iva nel 2012 è andato avanti finchè ha potuto fronteggiando la crisi, la mancata riscossione dei crediti maturati e da, un momento in poi, anche l’impossibilità di accedere al sistema creditizio bancario. Per il giudice «elementi di fatto e circostanze concrete che sono, nella loro oggettività, tali da far apparire la condotta dell’imputato non rimproverabile».
La sua storia è una delle tante finite nelle aule di giustizia per omesso versamento dell’Iva come previsto dall’articolo 10 ter della legge sui reati tributari (decreto legislativo 74 del 2000). Una fattispecie di reato che, di questi tempi, sempre più spesso trasforma imprenditori in imputati. Il giudice Massimo Biscardi ha sentenziato che il fatto non costituisce reato: dietro il mancato versamento dell’Iva non c’era il dolo, ovvero la volontà di tenersi i soldi in tasca o nelle casse dell’azienda, ma l’impossibilità di farlo. E’ mancato quello che, per il codice, è l’elemento psicologico del reato. Il processo penale impone di valutare e di provare la volontarietà dell’omissione, volontarietà che evidentemente nel caso specifico per il giudice non sussiste a causa della crisi finanziaria in cui l’imprenditore (assistito dagli avvocati Marco Pierdonati e Nicola Sotgiu) si è trovato anche in conseguenza di condotte di terzi inadempienti nei suoi confronti. «L’istruttoria dibattimentale», si legge nelle motivazioni, «ha dimostrato che la crisi di liquidità non era in alcun modo imputabile all’imputato, ma era legata al ritardo o alla mancata riscossione dei crediti (anche pubblici) vantati nei confronti dei clienti; che il periodo di crisi congiunturale del settore non risparmiava neppure la società, di cui l’imputato era rappresentante legale, con conseguente grave contrazione del fatturato; che gli istituti di credito revocavano le loro linee di credito alla società. Può dirsi che l’imputato si sia trovato sotto la pressione di circostanze esterne che, impedendogli dal punto di vista psicologico di assumere un comportamento diverso da quello effettivamente tenuto, fanno apparire come non più esigibile il fatto commesso». L’ennesima sentenza di assoluzione del tribunale teramano rientra nell’ambito di un filone giurisprudenziale che si va ormai consolidando e che trae linfa da recenti pronunciamenti della Cassazione. In più occasioni, infatti, i giudici della Suprema Corte, anche a sezioni unite, hanno sentenziato la necessità «di valutare il contesto economico e finanziario in cui ci si muove». Nel frattempo l’azienda siderurgica va avanti con un concordato preventivo in continuità dopo che l’Appello ha accolto il ricorso presentato dallo stesso imprenditore contro una sentenza di fallimento. Perchè lui ha scelto di non mollare.
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