il pensiero

«Tu, emigrante intellettuale»

Lo scrittore D’Alessandro: costretta a lasciare la nostra terra per necessità

Abbiamo chiesto allo scrittore Giovanni D’Alessandro di dedicare a Fabrizia alcune parole. Lo ha fatto indirizzandole questa lettera.

Fabrizia, noi non ci siamo conosciuti di persona. Accolgo dunque con un po’ d’imbarazzo, inferiore solo all’affetto e alla commozione che avverto, l’invito rivoltomi dal giornale per un contributo relativo a te.

Varie sono le cose che vorrei evitare di scrivere, per averle sentite ripetere – ad esempio al tuo funerale, – come che tu te ne sia andata da Sulmona perché all’estero c’è lavoro, mentre qui no. Ma purtroppo è vero e da qui bisogna partire. Certo, per quello ch’è successo sarebbe più giusto dire che all’estero, ad aspettare te, c’era il destino, non solo il lavoro; se si pensa a come avresti potuto non trovarti lì a quell’ora, vengono in mente immagini strazianti, come pensare di sentirti dire in una telefonata: «Stavo andando proprio lì, dove c’è stata la strage»; oppure: «Ero appena andata via da lì, l’ho scampata per un soffio». Non è stato così. In quel soffio se n’è andato ogni respiro della tua vita. Però è un fatto che a questo destino (caso, fatalità, atroce coincidenza di tempi, luoghi e presenza – comunque si voglia chiamarlo) l’Abruzzo e in particolare l’area peligna espongano voi giovani perché offrono scarse opportunità e incentivazioni a costruire il proprio futuro qui. Per cercare cosa? Per inventarsi cosa? Un impossibile mercato, consegnato alla vostra imprenditorialità, o forse alla vostra bacchetta magica, quando qui nei decenni tante altre attività, anche con solidi investimenti e coperture alle spalle, hanno chiuso, e le poche rimaste (Marelli, Medibev, Pantex, call center 3G e confettifici vari) versano in condizioni precarie, superate da produzioni e mercati tanto più vasti e aggressivi dei locali? Questo è un mondo globalizzato, certo. Solo che si è globalizzato anche il pericolo. Soprattutto in Europa.

Tu appartieni alla generazione Erasmus. Il palcoscenico su cui interpretare la vita è per voi giovani l’Europa, o forse il mondo, ma non è per vocazione che ve ne andate. È perché siete una nuova – non mappata o ipocritamente non chiamata così – forma di emigrazione: con caratteristiche ovviamente nuove, lontane da quelle che in passato hanno spopolato a ondate la nostra terra, dirette verso altri Paesi d’Europa o altri continenti. La vostra è un’emigrazione intellettuale. Un’emorragia di risorse che il Paese non sa integrare. Oggi emigrate con l’Erasmus alle spalle, con la laurea – nel tuo caso con le lauree – in tasca. Però ve ne andate perché qui non potete restare, e la necessità di andarsene per assenza di lavoro, Fabrizia, si chiama sempre emigrazione. E noi non sapremo mai se, a parità di opportunità, tu avresti scelto di restare qui o di andartene; trovandoti in quel giorno maledetto tra le bancarelle di Piazza Garibaldi, a comprare i regali di Natale, invece che di Breitscheidplatz.

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