Addio a Portoghesi, grande architetto tra Borromini e postmodernismo 

Progettista e teorico, primo direttore della Biennale, aveva 92 anni: sua la Grande Moschea di Roma Ha firmato centri culturali a Sulmona e Vasto, Accademia e Itis all’Aquila lasciati intatti dal terremoto

I suoi ultimi pensieri sono stati per il futuro della tenuta di Calcata, la grande immaginifica casa giardino nel borgo medievale alle porte di Roma dove da cinquant’anni insieme con la moglie Giovanna Massobrio, anche lei architetto, ha dato forma alla sua idea di architettura legata al genius loci, con il parco disseminato di biblioteche tematiche, giochi d’acqua, piscine, citazioni letterarie, omaggi ai grandi artisti del passato, animali esotici.
E forse è proprio quella dimora fantastica dove ogni angolo è gioco intellettuale e fantasia ma anche storia e pensiero a raccontare meglio di tutto la personalità sfaccettata e poliedrica di Paolo Portoghesi, morto ieri a 92 anni ancora lucidissimo, in piena attività. Architetto di fama ma anche storico, critico, docente, primo direttore della Biennale Architettura nella storica edizione che con il teatro del Mondo di Aldo Rossi lanciò la via italiana al Post Modern.
Una vita fino all’ultimo ricca di incarichi, idee, aspirazioni, progetti che in tanti momenti hanno incrociato la fede e le fedi, ma anche l’arte, il teatro, il cinema, come fu per Casa Papanice, costruita a Roma a metà degli anni '60 e diventata poi un set per tanti titoli della commedia all’italiana, indimenticabile quello con Monica Vitti protagonista di Dramma della Gelosia di Scola.
Papà ingegnere, laurea in architettura nel 1957, Portoghesi in tanti anni di carriera ha visto realizzati moltissimi dei suoi progetti, disegnando e costruendo davvero di tutto in Italia e all’estero. L'elenco è lungo, dalla Casa Baldi, citata in tutte le storie dell’architettura proprio per quella sua capacità di legare il progetto architettonico al luogo e alla storia, alla moschea di Roma, forse la sua opera più nota, passando per i complessi residenziali dell’Enel di Tarquinia, l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila dove ha firmato anche l’Istituto tecnico industriale (che hanno resistito al terremoto del 2009), e ancora in Abruzzo i centri servizi culturali della Regione a Vasto e Sulmona, il teatro di Catanzaro. Suo anche il restauro della piazza del Teatro alla Scala di Milano e di Piazza San Silvestro a Roma, mentre fra i lavori per l’estero ci sono residenze (Berlino), giardini (Montpellier), alberghi, fast food (Mosca), la Moschea di Strasburgo, tante chiese. «Dovendo scegliere tre opere che mi rappresentano, indicherei la chiesa della Sacra famiglia a Salerno, la piccola chiesa di San Cornelio e Cipriano a Calcata e la moschea di Roma», spiegava lui qualche anno fa in una intervista all’Ansa. «Ma i i progetti sono un pò tutti figli, ogni tanto li vado a trovare». Ma non solo, perché tanto tempo Portoghesi lo ha dedicato all'insegnamento – alla Sapienza e poi al Politecnico di Milano di cui è stato rettore dal 1967 al 1979 – e agli studi teorici, agli scritti che hanno fatto epoca sul barocco romano e l’adorato Borromini (è del 2019 la revisione della sua monumentale monografia del 1967). Ma anche ai lavori dedicati all’architettura moderna, la rilettura e la valorizzazione dell’opera di Mario Ridolfi, per esempio. Tutto materiale che dal 2016 è stato donato al Museo Maxxi di Roma. È stato presidente dell’Accademia di San Luca e accademico dei Lincei, presidente della Biennale di Venezia dal 1984 al '93. E proprio alla Biennale è legato un passaggio fondamentale della sua carriera, quello del lavoro condiviso con Aldo Rossi nel 1980 in occasione della prima Mostra di architettura, con la Strada Novissima e con il meraviglioso esperimento del Teatro del mondo. Era il momento del post moderno, di cui Portoghesi in Italia è stato il principale esponente, con l’idea di stabilire un nuovo rapporto creativo con la storia e le tradizioni delle diverse civiltà. Anche le critiche negli anni non sono mancate. Per questo, confidava lui al traguardo dei suoi 90 anni, lo faceva felice la più recente rivalutazione di quell'impegno teorico: «Finalmente oggi si è capito che il post moderno è stato un movimento per liberarsi da una schiavitù. Per me il senso di una maggiore comprensione. E perché no, di rispetto per il mio lavoro».