Il libro 

I “Derelitti” di D’Amicone Undici storie di vite senza vita

PESCARA. Viene in mente una parola giapponese – haiku, poesia consistente in un ridotto grumo di versi, trasferiti su pagina in un unico tocco di pennello – leggendo la raccolta di 11 racconti...

PESCARA. Viene in mente una parola giapponese – haiku, poesia consistente in un ridotto grumo di versi, trasferiti su pagina in un unico tocco di pennello – leggendo la raccolta di 11 racconti “Derelitti” (2019, wwe.edizionimontag.com, € 12) di Giulio d’Amicone, narratore, musicologo e critico cinematografico nato a Bologna, ma da lungo tempo residente a Pescara.
Si tratta di 11 storie più che di marginalità dei personaggi, di loro sollevazione dalla pesantezza della normalità, sebbene vissute da esseri comuni: un uomo di mezza età, un insegnante, un gruppo di amici, un ragazzo i quali tutti hanno una vita piuttosto banale. Sennonché un tratto li accomuna, quello d’essere incappati, o d’essersi lasciati volutamente cadere, in uno spazio dove c’è la vera vita “altra”, quella interiore. È questa vita che ne fa dei derelitti, sempre più scollegata dai gesti e dalle parole che la quotidianità impone e che si declina in forme per autodifesa nascoste, retratte dal giudizio altrui, eppure attraversate da una vitale ormonalità. Si isolano, si declinano in stranezze e in patologie cui la scienza non ha dato un nome. Un uomo di mezza ripone in un’amicizia femminile la sempre più evanescente speranza di costruire un rapporto con l’altro sesso, illudendo se stesso ed essendone consapevole. Un ragazzo passa i suoi giorni davanti alla tv, consumando il trionfo della virtualità sulla realtà. Amici che si ritrovano a una festa esorcizzano l’incomunicabilità portata dagli anni in una verbosità sostenuta a forza, percependo, in agguato, il silenzio. Sono vite accomunate dall’abbandono (quale etimologicamente è il significato di “derelictio”) che l’autore tratteggia con poche parole emaestria, riflettendo la realtà da uno specchio narrativo, senza giudicarla. La solitudine – sopravvenuta? ricercata? di certo coltivata – dei personaggi si esprime soprattutto nei dialoghi. Essi nutrono le pagine e sono un banco di prova per ogni narratore, prova qui dominata dall’asciuttezza stilisticamente congeniale all’autore e dalla sua consuetudine con la scrittura scenica; oltre che impreziosita dall’essere D’Amicone un purista della lingua italiana e un appassionato censore degli orpelli, dei sapienziali anglismi e dei tecnicismi che oggi comprimono, o rovinano, le potenzialità espressive del pensiero, dell’anima, del cuore.
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