Le pernacchie contro gli spot nell’era del virus 

Quella vecchia ricetta nata negli anni Sessanta per opporsi ai diktat della pubblicità televisiva 

Avete visto com’è brutta, in tv, la pubblicità successiva alla fine del lockdown? Gli spot che stanno passando ora sono stati girati in fretta nella fase iniziale della segregazione, con difficoltà tecniche e al risparmio, in quanto destinati a durare poco. Stanno diradandosi, ma alcuni sono ancora pervasi da un tono sepolcrale che risulta sfasato già oggi. Prevalgono toccanti rintocchi di campane su paesaggi urbani deserti – con carte che si sollevano da terra alla day after; inquadrature di bambine su altalene spinte da nonni - i quali ultimi scompaiono nell’inquadratura successiva; virili incoraggiamenti stile Navy Seals a “farcela, coraggio, Italia” - manca il plotone di militari in marcia, ma la voce fuori campo ha il tono della radio inglese nel 1940, riferimento che tra l’altro non è improprio, dato che al 1940 si è ispirata la stessa regina Elisabetta nel suo appello anticoronavirus alla nazione. Su tutto aleggia un tono di mercenaria mestizia. Secondo alcuni, questi spot, trasmessi alla fine della segregazione, tirano anche leggermente sfiga, come se potessero rievocare e far ripartire dei focolai.
Però, facendo i debiti scongiuri, c’è anche da divertirsi. Siamo infatti al trionfo del cattivo gusto, della commozione a basso livello, della prostituzione promozionale, che il coronavirus ha fatto venire a galla, con effetti grotteschi. Sicché non sarà incongruo contrapporre ad essi un allegro episodio di 60 anni fa, quando le reclam“i” (leggere la parola storpiandola volutamente in italiano) erano confinate a Carosello, non si parlava ancora né di “spot”, né di “pubblicità”, né di lerci, subdoli “consigli per gli acquisti”, quali si sono rovesciati a impestare le nostre esistenze da un quarantennio.
Ebbene già attorno al 1960, in agro abruzzese, l’accoglienza da dedicare alla tv commerciale, era la pernacchia. A suggerirla a noi bambini - la pernacchia tv vietata in casa - era un anziano pastore, convertitosi a fare il fattore, la cui moglie d’estate dava una mano a casa dei nonni.
Vivevano a due passi dalla nostra casa in campagna, non a Sulmona, ma sempre in quell’agro peligno in cui ogni estate, a partire dai due anni, i miei genitori mi portavano giù dalla natìa Romagna; il pastore-fattore Zeffirino detto Rino e la moglie Santina mi accoglievano invariabilmente con le parole ‘mma t’ shi fatte gruosse, come ti sei fatto grande. Il rito delle pernacchie alle reclam“i” avveniva nella loro cucina, dove era stato posizionato, raro accessorio, un televisore, regalato dai miei nonni perché non funzionava troppo bene, cioè funzionava, solo che ogni tanto, per far sparire i friccichìi, gli andava data una botta, andava percosso sulla cassa per far tornare sia l’immagine, sia l’audio: gli serviva cioè, abbastanza spesso, nu cuppìne.
La sera mezzo agro corfiniese si riuniva a casa di Santina e Rino; infatti, a parte loro e i miei nonni, solo il bar, in zona, aveva un’altra tv, ma là bisognava consumare. Parentesi sul rito del cuppìne diverso dalla pernacchia. Era anch’esso ambito da noi bambini per cui era stato fissato un ordine nel praticarlo.
Si aspettava il friccichìo e non si scambiava neanche un’occhiata di autorizzazione con Rino giacché nessuno sgarrava rispetto al proprio turno, arrivato il quale scappava a percuotere la cassa: a ognuno il privilegio del suo cuppìne a giro. Un problema, risolvibile, si poneva solo col nipotino più piccolo di Rino, che si chiamava Rinìlle, non aveva due anni ma reclamava di poter percuotere anche lui la cassa sicché veniva alzato dal nonno ad altezza tv e la sua manina guidata, da quella dell’anziano, all’ambita percossa.
Ma è di pernacchie, non di percosse che dovevamo parlare. Funzionavano così: quando finiva una reclam“e” Rino, se il prodotto non gli piaceva, cosa che accadeva quasi sempre, comandava a noi bambini la spernacchiata.
La reclam“e” da lui più odiata era la brillantina Linetti, in quanto Rino era calvo e lì un infallibile ispettore di polizia, sollevandosi il cappello mostrava la sua pelata e confessava “di aver fatto anche lui uno sbaglio, non aver usato brillantina Linetti”. Lì non occorreva la comandata di Rino, le pernacchie partivano spontanee già prima del cappello sollevato.
Lo spernacchiamento di squadra era tanto più apprezzato quanto più tardi si spegneva, con noi tutti paonazzi, e a questo proposito nessuno eguagliava il bambino Carluccio, il quale, rosso come un ciclamino, durava il doppio di noi e si prendeva l’applauso; oggi riveste importanti incarichi nell’ambito della magistratura e con quei precedenti lì, non c’è dubbio che fosse vocato, per contrappasso, a ruoli istituzionali (gli mando un pensiero affettuoso), comunque: Rino, in piedi, con le mani, simulava il direttore d’orchestra fino all’ultima asfittica fase delle pernacchie da parte di tutti noi e di Carluccio.
A questo punto bisognava dare soddisfazione anche a Rinìlle che però era troppo piccolo per saperle fare, sicché si metteva davanti a tutti, gonfiava le guancette e soffiava come spegnendo le candeline; l’applauso partiva lo stesso, poi se lo rimetteva in braccio il nonno.
Dopo ogni prodotto, il rito si concludeva quando Rino chiedeva: “Allora, bambini, quando vedete questa cosa qua, voi la comprate?”. “Nooooo!” – rispondevamo in coro.
Così funzionava nel 1960 la contropubblicità a suon di pernacchie. Rino era un grande. Era un profeta non del verbo divino, ma di un verbo anch’esso in ogni senso ispirato - o meglio,espirato. Era un barricadero ante litteram; un no logo ante Naomi Klein; un Noam Chomsky del contado.
C’era solo un piccolo problema negli Alimentari quando le mamme ci portavano lì (i supermercati non esistevano ancora): in quanto al primo prodotto-pernacchia che riconoscevamo, non gliela facevamo mancare e la signora dietro al bancone ci guardava in modo un po’ strano, sorridendo senza capire.
A capire tutto era la mamma – la nostra onnisciente, energica, giovane mamma di allora - la quale sapeva del rito e invano aveva provato a convincere Rino a farlo smettere.
Dandoci allora una scinnicata, cioè uno scossone al braccino, ci si metteva davanti, severissima, con un dito alzato, dicendo a bassa voce: non lo devi fare più, capito? non lo fare più! E’ incerto se poi il prodotto-pernacchia venisse acquistato, oppure no.
Confessione finale. Sessant’anni dopo, io, quando mi trovo davanti alla tv, sono ancora tentato dalla pernacchia, per certe reclam “i” da coronavirus, e non solo per quelle. Certo, farle da solista è ben diverso che farle in squadra, ma suppongo sia difficile riassortire oggi una squadra. E poi le pernacchie produrrebbero le temutissime goccioline col virus.
Però. Però, però. (…io, qualche volta, quando sto da solo, messa come sordina una mano davanti alla bocca…).
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