Renato Minore ricorda «Quel nostro amico geniale e malinconico» 

In “Ennio l’alieno” un ritratto inedito dello scrittore Dall’affetto per Pescara al rapporto con la moglie Rosetta

PESCARA. Renato Minore, come Ennio Flaiano, è un abruzzese trapiantato a Roma e come lui ha più di un’arte: è giornalista, scrittore, saggista, critico, poeta. Insieme alla moglie Francesca Pansa, giornalista e autrice televisiva, ripercorre in Ennio, l’alieno vita, talenti e umanità del grande intellettuale pescarese. Insieme, i due ne tratteggiano con sapienza e affetto un ritratto personalissimo e per certi versi sconosciuto. L’intervista li raggiunge a Roma, dove risponde Renato.
Partiamo dal titolo: perché l’alieno? Un riferimento al marziano del libro di Flaiano?
Sì, direi che c’è un riferimento a Un marziano a Roma, l’essere che tutti prima applaudono e poi ignorano quasi con disprezzo. Perché in fondo Ennio Flaiano è stato un alieno nella percezione che si è avuta di lui come scrittore. Considerato soprattutto giornalista e battutista, il suo essere scrittore è restato sempre un po’ in ombra. Forse lui stesso si sentiva un po’ alieno.
Al Flaiano delle battute fulminanti e degli aforismi, più conosciuto, si sovrappone un Flaiano amaro, malinconico. Chi c’è dietro le tante maschere?
Per un verso, Flaiano aveva un carattere insicuro, ogni sua scelta poteva mettere in discussione altre scelte. Era eclettico: camminava dentro le diverse scritture e al contempo sapeva variarle. La sua grande capacità era di passare, come si fa con una tastiera, da un linguaggio all’altro, dal diario all’epigramma anche feroce. Potremmo definirlo un grande moralista contemporaneo, all’altezza di quelli del passato come Montaigne. Per capire la cifra di Flaiano necessita una lettura attenta delle sue cose. Ha molte facce e lui stesso a volte non sapeva quale maschera indossare. Dietro tutte queste maschere c’è la sua storia di uomo.
Ritiene che Flaiano abbia avuto, in vita, il riconoscimento che meritava?
Ha avuto molti riconoscimenti, tra cui il Premio Strega, ma non quello che lui voleva. Ritengo che la sua sia una figura molto moderna: ci sono scrittori che si identificano nella loro opera e Flaiano si dissipa dentro tutta la sua produzione. Lui è molto riconoscibile, soprattutto negli scritti finali, ha un marchio di fabbrica molto ben definito. Dietro questa incessante metamorfosi della sua scrittura si nasconde un uomo dolente e anche tragico. Un uomo che considera la vita una prova continua, che porta all’errore continuo e all’impossibilità di conoscere davvero la realtà che abbiamo di fronte, consumata dalla sua non significanza. Il suo è un riso amaro.
Proverbiale la pigrizia di Flaiano: la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico raccontava di lunghe sedute di scrittura, con molte chiacchiere e divagazioni, ma poche pagine scritte. Lui stesso confidava di aver ereditato dal padre «una pigrizia sveglia». Era davvero così?
Flaiano aveva il fisico e la caratura del pigro, del meridionale, ma era una pigrizia più detta che reale. Invece ha scritto tantissime pagine. Le sue cose si incastrano, si trasformano continuamente in altro. Il marziano nasce come pagina e poi diventa quell’opera teatrale “di clamoroso insuccesso”. Insuccesso dovuto alla sua modernità, alla minimalità che non si prestava alla grandiosa presentazione fatta all’epoca da Vittorio Gassman.
Come mai, dopo il bellissimo Tempo di uccidere, premio Strega nel 1947, Flaiano non scrisse più romanzi?
Tempo di uccidere è un grande romanzo, tra i più grandi del Novecento. Quasi anticipa la tecnica del romanzo aperto, che gioca a nascondersi al lettore in un continuo variare tra apparenza e realtà, storia pubblica e dramma intimo. Ma non incontrò il gusto per il neo realismo dell’epoca, fu poco capito e poco letto. Dopo questo, Ennio scrisse però alcuni racconti molto lunghi, quasi deo romanzi brevi.
Flaiano visse poco nella sua città natale: a 12 anni era già a Roma e tornerà a Pescara solo per le vacanze d’estate. Ma alla città dedica descrizioni sempre affettuose, anche se ricche d’ironia. Che rapporto aveva con questi luoghi?
Si dice che ha cercato altrove non il successo ma una identità: io trovo che non sia vero. A Roma è diventato il grillo parlante, ma ha mantenuto un legame stretto con l’Abruzzo. Trovo che tutto sia abruzzese, in lui: il pudore, la convinzione che ogni cosa sia vana, le caratteristiche caratteriali che lui stesso considerava abruzzesi. Mi ha detto qualche volta che pensava di tornarvi in vecchiaia, magari a Cappelle sul Tavo, il paese della madre. Ricordo che da presidente della neonata Società del teatro e della musica di Pescara (nel 1967 n.d.r.) fece un bellissimo discorso sulla funzione del teatro, che lui voleva artigianale, vissuto giorno per giorno, sera per sera. Fece venire una compagnia d’avanguardia, fece venire Carmelo Bene, voleva incitare la città a conoscere la cultura. Frequentava intellettuali abruzzesi, quasi un cenacolo: il fotografo Pasquale De Antonis, il poeta Giuseppe Rosato. I famosi “vitelloni” del film di Fellini sono quelli di Pescara.
Forse per la prima volta, il libro esplora in profondità l’Ennio privato, la sua realtà familiare. Un capitolo è dedicato alla moglie, Rosetta Rota, donna intelligente e colta che rinuncia alla carriera per prendere su di sé il peso della famiglia e di una figlia, Lè-lè, colpita da grave disabilità...
Questa è la parte più letteraria, di racconto, del libro, dove si palesa la volontà di ricerca da parte di Francesca. Qui si sente, nella scrittura, la mano femminile. Il dramma familiare ha scosso più la vita di Rosetta che quella di Ennio. Lei rimane sempre un po’ in ombra, un po’ nascosta anche nelle foto. Ma è stata molto importante per Flaiano, nonostante il loro fosse un rapporto complesso, punteggiato dai tradimenti continui di lui. Rosetta era una scienziata, ma ha lasciato tutto per la figlia. Ennio credeva che lei non leggesse niente di suo, ma penso che non fosse vero. Soprattutto, Rosetta ha fatto sì che le carte del marito fossero raccolte e che si creasse così il “post-Flaiano”, tanto diverso dall’immagine di quando era in vita. Lui si arrabbiava molto quando lo chiamavano scrittore comico: lei ha fatto uscire l’aspetto “alto” del suo scrivere.
Avete esplorato anche il rapporto di amore-odio con Federico Fellini?
Furono amici-nemici. Fellini era onnivoro, spesso travolgeva Flaiano. Da sceneggiatore, Ennio ha dato molto al regista Fellini, c’era molto in comune tra loro. Erano due provinciali a Roma, più illuminista e scettico Flaiano, più immaginifico Fellini. Una scontrosa amicizia, tra crisi e riappacificazioni. Di Fellini, Flaiano diceva che gli aveva rubato anche l’infanzia, che l’aveva succhiato con la cannuccia come una Coca-cola. Fellini era un regista fagocitante che prendeva tutto da tutti, ma alla fine riconobbe anche i suoi errori, confessando che Ennio era rimasto per lui una presenza costante anche dopo la sua morte.
Come è nato questo progetto di scrittura a quattro mani?
Il libro è nato spontaneamente. Forse senza mia moglie non l’avrei scritto, e neppure lei. Si sono unite le nostre esperienze: la mia con Ennio, che ho frequentato fino alla sua morte e quella di Francesca con la moglie, che conobbe nel 1994. Rosetta aveva dato alle stampe un libro sulla disabilità con testimonianze di scrittori come Giancarlo De Cataldo, Giuseppe Pontiggia e altri. Un libro bello, struggente, che fece innamorare Francesca di questa figura di donna. La struttura del libro l’abbiamo ideata insieme, poi è venuta la scrittura: io più saggista, lei più narratrice. Io considero Ennio l’alieno un romanzo a tutti gli effetti, è in parte biografia, in parte critica, gira dentro e fuori Flaiano. In questa nostra collaborazione familiare ci sono stati anche contrasti, toni a volte accesi. Mia moglie ha un’antica e rinnovata vocazione femminista, è stata una dialettica alla pari. ©RIPRODUZIONE RISERVATA