Trenta anni fa moriva il grande Ugo Tognazzi genialità e «zingarate» 

Indimenticabile «colonnello» della commedia italiana «Il cinema è il mio hobby, il teatro calore, la cucina vocazione»

Nella notte del 27 ottobre di 30 anni fa, sorpreso nel sonno da un’emorragia cerebrale, se ne andava a soli 68 anni Ugo Tognazzi, indimenticabile «colonnello» della commedia all’italiana. Erano 3, come i moschettieri: il cremonese e ruspante Tognazzi (Porthos), il gigione e intellettuale Gassman (Aramis), il sommesso ciociaro Manfredi (Athos). A loro, la mitologia del cinema italiano aggiungeva sempre un quarto, una sorta di D’Artagnan coi modi eleganti di Mastroianni.
Tognazzi nasce a Cremona il 23 marzo del 1922. La famiglia è tutt’altro che ricca e quando Ugo finisce la scuola è già tempo di trovare un lavoro. Lo assumono in un salumificio ma conserva il posto soprattutto per merito delle recite filodrammatiche che mette in scena al dopolavoro. L’arte della comicità servirà a Tognazzi per stare defilato anche durante la guerra quando s’impegna soprattutto a organizzare spettacoli per il morale delle truppe. A guerra finita approda a Milano e viene baciato dalla fortuna perché si fa notare da Wanda Osiris a una serata di dilettanti al teatro Puccini.
Assunto in compagnia si costruisce una brillante carriera di “primo giovane” e intrattenitore. Lascia il lavoro e nel 1950 scende a Roma sulla via di Cinecittà perché «col cinema si guadagna di più. Ma niente come il teatro», dirà, «restituisce il calore del contatto diretto che io ho poi ricostruito con la mia vera vocazione, la cucina. Preparare una cena e vedere l’espressione soddisfatta dei commensali è proprio come finire una serata in teatro quando il pubblico ti applaude. Per questo considero il cinema solo come il mio hobby preferito». Il primo ruolo sullo schermo glielo affida Mario Mattoli ne I cadetti di Guascogna del 1950 a fianco di Walter Chiari che gli ruba la scena. L’anno seguente incontra invece Raimondo Vianello e i due faranno coppia fissa per tutti gli anni ’50 arrivando al grande pubblico con il trionfale successo di molte pellicole, ma soprattutto col varietà televisivo Un, due, tre. Nel 1959, a causa di una scenetta satirica sul presidente della Repubblica Gronchi, il programma viene chiuso senza preavviso e i due licenziati dalla Rai. Ma il cinema ha ormai adottato quel lombardo, che sforna film a raffica (12 nel solo 1959) ed è ormai pronto per parti da protagonista senza rivali.
Se ne accorge Luciano Salce che con lui si afferma grazie a Il federale (1961) per poi stringere un lungo sodalizio. Se ne accorge Dino Risi che ne replica il successo con La marcia su Roma del ’62. La carriera di Tognazzi da quel momento è un’ascesa costante che diviene sfida a se stesso: non è un uomo bello secondo i canoni tradizionali, ma ha fascino da vendere; non è un attore intellettuale e colto come l’amico Gassman, ma non c’è autore di qualità che non lo cerchi; ha l’impronta dell’uomo normale ma con l’altro amico d’elezione, Marco Ferreri, cerca l’eccesso, la provocazione, il surrealismo calato nella rappresentazione realista della vita. Nascono così capolavori come La donna scimmia, L’udienza, La grande abbuffata. Per Monicelli darà vita alla saga di Amici miei con l’irresistibile maschera del Conte Mascetti. Con Risi e Scola stringerà un sodalizio profondo che frutta grandi successi come Straziami ma di baci saziami o La terrazza.
Un vitalismo insaziabile che si traduce nella capacità di rischiare ogni volta, spinge Tognazzi a evitare gli schemi e le “parrocchie” del cinema italiano: incrocia Elio Petri (La proprietà non è più un furto) e Bernardo Bertolucci (La tragedia di un uomo ridicolo con cui vince la Palma d'oro a Cannes nel 1981); sostiene gli esordi di Pupi Avati (La mazurca del barone...) e si traveste da gay per Edouard Molinaro ne Il vizietto che sul finire degli anni '70 lo rilancia in tutto il mondo.
Continua a tenere un ritmo di lavoro infernale (almeno due film all’anno) ma dalla metà degli anni '80 torna sempre più di frequente al teatro, passa molto tempo a Parigi, si fa sorprendere dalla malattia più infida e crudele: la depressione. Ormai a poco servono i grandi raduni tra la casa di Velletri e quella di Torvajanica dove col pretesto di un torneo di tennis tra amici e colleghi si passa il tempo in pantagrueliche tavolate. Pur con intorno l’affetto dei figli avuti da ben 3 matrimoni e la dolcezza dell’ultima moglie Franca Bettoja, il grande attore si isola sempre più spesso, si lancia in una serie televisiva che non porterà a termine, Una famiglia in giallo. Lascerà in sospeso anche il progetto di una nuova regia, percorso cominciato dietro la macchina da presa già negli anni '60 (Il mantenuto) e che gli aveva portato buon consenso critico con titoli come Il fischio al naso, Cattivi pensieri, I viaggiatori della sera. A vent’anni dalla morte, sua figlia Maria Sole gli ha dedicato un documentario, Ritratto di mio padre, che ne recupera la dolcezza e la sensibilità anche fuori dal set, mentre i figli Ricky e Gianmarco (entrambi attori/autori) hanno spesso cercato mostrare la stessa naturalezza interpretativa, frutto di una passione autodidatta. Tognazzi fa parte di quel manipolo di «mattatori» che hanno fatto grande il cinema italiano mettendo in mostra tutti i difetti, le viltà, le fragilità dell’uomo contemporaneo con una maschera mai definibile, mai stereotipata, sempre amorevole.